Parrocchia di Campolongo in Conegliano

 

 1962-2012 

50 anni dal Concilio VaticanoII

 

a cura di don Carlo Salvador

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1962-2012

Memoria e speranza                             a cura di don Carlo    [ 1 ]

 

Il Concilio Vaticano II, annunciato dal papa beato Giovanni XXIII il 26.01.1959 e indetto il 25.12.1961, si è aperto l’11.10.1962.

Allora iniziavo l’ultimo anno di studi e di formazione nel nostro seminario, un tempo permeato dell’attesa del dono del presbiterato e del Concilio, che hanno forgiato la mia vita. Mi ritengo fortunato dell’intreccio di questi eventi, perché sento che in me l’uno ha rafforzato l’altro e insieme mi hanno fatto prete inserito nel tempo. Ho iniziato il mio cinquantesimo il 29 giugno 2012 nella comunità in cui ho inaugurato il mio cammino di pastore e lo continuo nella memoria degli eventi che accadono, in modo che consolidino la mia identità e la mia speranza in colui che mi ha chiamato. Gli anni-versari non sono tempo di bilancio di ciò che siamo riusciti a fare ma una festa in cui godiamo insieme eventi significativi, ringraziamo per ciò che sono per noi e ci auguriamo che il dono di vita continui.

Mi sembra poca cosa celebrare il cinquantesimo il giorno in cui si conclude; reputo una fortuna vivere tutto l’anno come giubilare, secondo la rivelazione di Dio a Israele: un tornare all’inizio di una esperienza per recuperare il dono iniziale, alla luce di cinquanta anni di cammino segnato da eventi positivi e da fragilità personali che non conoscevo. Vale per me rispetto all’essere prete e per tutti rispetto all’essere Chiesa nella contemporaneità. E’ importante farlo con le persone con cui siamo Chiesa e che sono disponibili a coinvolgersi in una memoria che rafforzi la speranza nel futuro.

Apro una rubrica nell’Annuncio per questo e anche per aiutare altri, persone e gruppi, a riflettere sulle esperienze che viviamo nella comunità e a comunicarle per rafforzare la comunione ecclesiale.

Nessun evento, nessuna idea, nessuna definizione e nessuna espe-rienza esauriscono il mistero della Chiesa. La teologia evolve e ci offre chiavi di lettura nuove per entrare con più profondità nel mistero. Farne memoria insieme rafforza la nostra esperienza ecclesiale e la nostra speranza nel regno di Dio che viene.

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La Chiesa di tutti                              a cura di don Carlo    [ 2 ]

 

Cinquanta anni or sono, a conclusione degli studi teologici, ero convinto che la Chiesa fosse una società perfetta costituita in modo gerarchico: società, come lo è uno stato, e perfetta perché aveva tutto ciò che le servi-va per svolgere il suo compito. Era la tesi che S. Bellarmino (1542-1621) contrapponeva a Lutero, e che ha dominato nei secoli successivi ed è stata codificata nel Diritto Canonico del 1917. Negli anni ho scoperto che la Chiesa è composta da uomini che vivono nel mondo come parte della storia e del suo cammino. La Gaudium et Spes si apre annunciando che "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi ... sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore". La Chiesa non è statica ma cresce come il piccolo grano di senape che diventa albero.

I Padri del Concilio, a contatto con la Scrittura, la Tradizione e i movimenti liturgico ed ecumenico, hanno riscoperto che la Chiesa è prima di tutto popolo di Dio. La Chiesa non è l’arca di Noè in cui tutti si devono imbarcare se vogliono sfuggire al diluvio e il battesimo non è un sigillo impresso nell’anima come lascia passare per il paradiso. Chiesa è un popolo di fratelli adunato dal Signore stesso perché divenga regno di Dio. Lo Spirito la arricchisce di vari carismi e la tiene unita nel suo amore. Nella Chiesa c’è il potere e l’obbedienza ma i ministri non decidono da soli e hanno il dono di continuare il servizio pastorale di Gesù. Il loro carisma non sostituisce la fede né la chiamata di Dio né l’opera dello Spirito santo. La guida della Chiesa è plurale: il papa in unione collegiale con i vescovi del mondo, che sono testimoni del Risorto. Nel mio ministero ho patito le sofferenze della contrapposizione tra la fede che si rifà al magistero del Concilio ed è diventata di minoranza, e la fede preconciliare che è ancora la nervatura della prassi ecclesiale. La Chiesa non si cambia in un Concilio. La materia prima per restaurarla sono i cristiani capaci di vivere come popolo di Dio.

Quando i cristiani conosceranno le Scritture e sapranno rispondere con coscienza e competenza alla loro vocazione la Chiesa diventerà di tutti, com’è nel sogno del Signore, che il papa Giovanni XXIII ha interpretato.

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Il tesoro nel campo                              a cura di don Carlo    [ 3 ]

 

Una persona parla con spontaneità e libertà di ciò che ha nel cuore.

Un giorno parlavo  del Concilio, l’evento che ha segnato la mia vita, e una giovane donna intervenne: che cos’è il Concilio? Ciò che per me era vivo e  contemporaneo per lei era sconosciuto. Per quanti cristiani è così?

Le cronache del Concilio dicono che nell’assise dei vescovi si era formata una minoranza combattiva che è diventata maggioranza quando, conclusa l’assise, le decisioni sono rimaste nelle mani di persone interessate alle cose che sapevano fare più che a misurarsi con il nuovo. E’ più facile essere maestri che essere profeti. Ora i testimoni sono pochi, i discorsi non convincono e le riforme sono un cambio d’abito di persone che rimangono quelle di sempre. La maggioranza dei cristiani non viene in chiesa e tanti praticanti non ascoltano la parola di Dio e chiedono i sacramenti come la loro festa e entro le loro tradizioni e la parrocchia non è ancora comunità. Sembra che Gesù abbia portato con sé  il vangelo in cielo, mentre in terra sia prigioniero di chi nella religione cerca la sua gratificazione. Lo scrivo con serenità, perché vale anche per la mia vita presbiterale. Ricordo l’entusia-smo dell’inizio, quando staccavo i foglietti da un calendario decrescente verso il  giorno dell’ordinazione. Nel tempo il fervore si è scontrato con situazioni difficili e ha perso molto mordente. In principio il tesoro nel campo è fruibile a tutti ma poi le vicende dell’esistenza personale e quelle pastorali depositarono su di esso strati di compromessi fino a sotterrarlo.

Alcuni lo tolgono di mezzo come non sia avvenuto realmente e altri non ne parlano per proteggersi dalla violenza del sistema. Forse è naturale così.

Il Concilio e la nostra vocazione sono state solo aurora ma, se rimuoviamo i detriti che abbiamo accumulato, possiamo valorizzarlo come un tesoro.

 Per me il Concilio e l’ordinazione non sono più “luna di miele ma “tesoro” da cui estraggo cose nuove e cose antiche. Non so dire se sono più le cose nuove o quelle antiche. Certo che mai ho amato come ora le Scritture, la liturgia e il mio ministero, in cui Gesù continua a servire il popolo di Dio.

Questo si misura ogni giorno con la cultura contemporanea e con il lato meretricio della  Chiesa ma resta una bella opportunità per crescere.

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Antichi sapori                                          a cura di don Carlo    [ 4 ]

 

Amo le cose non definite e i colori sfumati, perché l’opera che lascia ancora spazi all’immaginazione la posso sentire anche mia. Il Concilio può allineare documenti, protagonisti e tanta passione per la Chiesa. Anche la mia vita di presbitero lo può. Ora non mi tentano i contenuti sviluppati nel tempo ma le emozioni con cui questi eventi li posso ancora interpretare. Una memoria non è una registrazione di fatti né la visitazione di un album di fotografie ma un assaporare cose vissute. Sono stato ospite di persone anziane che facevano il mangiare di una volta, ho scodellato la polenta cotta sulla cucina economica nel paiolo di rame e l’ho scrostato ancora caldo con le mani. Mi ricordava quando, ancora piccolo, non ce la facevo a tenere la “caliera” (così chiamavamo il paiolo) appesa alla catena sopra il fuoco e insieme a rigirare la polenta che induriva. Un giorno mia mamma mi aveva insegnato come fare la minestra per me e un mio fratello. Lui non sapeva il retroscena e quando si è messo a tavola mi ha detto: che buono questo risotto! Come l’hai fatto? Quante trepidazioni nell’affrontare situazioni più grandi di me nel mondo del lavoro, dove il vescovo Albino mi aveva mandato ancora troppo giovane, e quante sorprese per cose che malgrado i miei dubbi ricevevano consenso. Anche allora non mancavano gli stroncatori. Un giorno ho scritto un articolo per l’Azione, il settimanale della diocesi, con il titolo: Sono per la rivoluzione. Ero responsabile della pastorale diocesana del mondo del lavoro e l’Azione me l’ha pubblicato.

La reazione fu dura. Come potevo fare riserve così marcate sulla proprietà privata o a difesa dei diritti dei lavoratori, senza essere un comunista? Sono stato messo a confronto nella pretura di Vittorio Veneto per un volantino e ero presente nell’aula del tribunale di Treviso, solidale con un mio confratello inquisito per lo stesso fatto. Il giudice non contento del dibattito disse in aula: Qui c’è don Carlo e lo sa. Io c’ero e sapevo invece che quel volantino non diffamava ma difendeva. Emergevano dal mio animo di ragazzo le sofferenze patite dalla mia gente a causa di alcune autorità.

Dai miei contestatori mi distinguevano sapori antichi: l’amicizia, la solida-rietà e la  giustizia. Era rivisitare eventi passati e assaporare cose vissute.

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Si rallegra la madre Chiesa                       a cura di don Carlo    [ 5 ]

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Alcuni dicono che il Concilio ha tradito la Chiesa, altri che è stato tradito da essa e i dottor Azzeccagarbugli, che non si sono mai trovati a difendere la causa giusta, attirano l’attenzione su altre realtà provvisorie e speciose.

Il Concilio intanto continua a sviluppare indisturbato la sua rivoluzione, correndo sotterraneo, come l’acqua nel terreno carsico, e riaffiorando come e quando nessuno lo sa. Le persone che lamentano l’oggi della Chiesa si agiterebbero come pesci fuori acqua se tornasse quella di prima.

La Parola non troverebbe orecchi ad ascoltarla, la liturgia apparirebbe obsoleta e il far comunità una rinuncia alla libertà. Provo una sottile nostalgia di come ero cristiano e prete cinquanta anni fa, anche se ora amo cose diverse e le vedo “molto buone”. Dove arriverà il Signore?

Il giorno dell’apertura del Concilio la Chiesa stupiva il mondo con l’ingresso in S. Pietro di tutti i vescovi della terra e i canti della corale delle liturgie papali, ma non godeva un momento felice. Rimangono tuttavia piene di fascino le parole con cui Giovanni XXIII quel giorno apriva l’assise dei vescovi: si rallegra la madre Chiesa. Che cosa vedeva il papa in essa?

Me lo ricorda l’affresco dell’annunciazione nella nostra chiesa. Rallegrati, piena di grazia, annuncia l’angelo a Maria: ora ti turba l’evento che Dio vuole compiere in te e con te ma lo godrai a mano a mano che crescerà.

Che cosa vede il papa nella Chiesa? Egli constata che la Chiesa si rallegra di una realtà nascosta che affascina il suo animo di pastore: la profezia che abita la storia. Gesù non era un amministratore delle cose di Dio ma uno che le scopriva in dialogo con lui e le interpretava nella sua carne e nelle sue relazioni: conosceva i pascoli che nutrono e le acque che dissetano.

Gesù è il profeta. Il Seminario mi ha educato a cose preziose ma la profezia ho dovuto scoprirla da solo: non abitava il tempo che il mio ministero attraversava. Avessimo avuto nella nostra chiesa diocesana meno ammi-nistratori pastorali e più pastori capaci di condurre dove i segni dei tempi chiamavano! Ora saremmo un’altra Chiesa. Ma forse Dio aspetta che sia il popolo intero a scoprire i nuovi sentieri aperti dal Concilio e a percorrerli con le comunità cristiane fino a trasformarle in Chiese profetiche.

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Là lo vedrete                                                       a cura di don Carlo    [ 6 ]

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Il pellegrinaggio in terra santa era guidato da un noto teologo innamorato della Giudea e di Gerusalemme, dove la morte e risurrezione di Gesù hanno salvato la storia, e da un prete della diocesi di Bologna innamorato della Galilea, splendida nei paesaggi e nel primo annuncio del vangelo.

Non mi mancano le loro dissertazioni su ciò che è interessante vedere nella Palestina, perché mi bastano le sensazioni che il pellegrinaggio ha suscitato in me durante la settimana santa che ho celebrata in quei luoghi.

Il giovedì santo nel cenacolo mi ha sorpreso l’idea che la terra è tutta santa quando è vissuta come Gesù ha abitato la sua. E mi ha insegnato come Dio redime la terra abitandola. L’angelo di Dio ha mandato le donne a dire ai discepoli: Gesù è risorto dai morti e vi precede in Galilea; là lo vedrete.

Perché il Risorto si vede in Galilea? Giovanni XXIII ha assegnato al Concilio un compito pastorale. Molti lo ritengono un concilio minore rispetto ai precedenti, che definivano in modo infallibile verità espresse a parole. Vale di più l’ortodossia o la vita quotidiana condivisa con Gesù? Il giubileo del Concilio e il mio domandano di ritornare nella Galilea del vissuto. Lo sto facendo perché l’esperienza pastorale illumini, insieme alle Scritture, il mistero e il cammino con Dio sulla terra mi porti a vederlo. Infatti le prime parole Dio le ha scritte nel creato e Gesù le ha redente nella vita.

Anche noi le cose belle le impariamo dalla vita e alcuni tra noi che sono ultimi nel dire arrivano primi nel vivere. In Galilea non si visitano scuole e biblioteche ma luoghi che raccontano i vissuti e in essi rivelano Dio. Il lago e la casa di Pietro, i porticcioli e i pescatori, le montagne e il loro silenzio, le messi e i contadini, i mestieri con cui la gente sopravviveva alla violenza degli eventi e alla prepotenza dei ricchi e delle autorità e i fiori del deserto rivelano il passaggio della sapienza di Dio. Gesù era un artigiano precario che riparava case e raddrizzava strade e apriva vie nuove anche all’anima.

La Galilea rivela come Dio redime. Chissà perché nella Chiesa le certezze prevalgono sulle tracce lasciate da Dio e l’autorità sul servizio da fare.

Eppure Gesù non lo vediamo dove regnano il tempio, le feste e le scuole religiose separati dai poveri, dai peccatori e dagli emarginati che Dio ama.

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La dottrina sociale                                               a cura di don Carlo   [ 7 ]

 

Ho accostato il pensiero sociale della Chiesa in momenti diversi, legati alla mia formazione e al lavoro pastorale. La prima fase è stata lo studio dei contenuti. L’ho iniziato in Seminario seguendo le lezioni e le dispense di don Narciso, idee che apprendevo con fatica ma che svegliavano passioni sopite nell’animo.

Mi hanno spinto a conoscere come i papi, da Leone XIII che nel 1891 scrisse la prima enciclica sociale “Rerum novarum” a Giovanni Paolo II che nel 1991  ha pubblicato la “Centesimus annus”, hanno elaborato gli insegnamenti della Chiesa sui problemi della società.

Erano in ritardo sul movimento operaio e sulle ingiustizie emergenti ma erano coraggiosi entro la cultura ecclesiale.

Mi hanno aiutato a riconoscere la Chiesa del Concilio che nella Costituzione sulla Chiesa e il mondo moderno si presenta intimamente solidale con la famiglia umana e la sua storia.

La seconda fase è legata all’esperienza pastorale degli anni 70, quando ero delegato per il mondo del lavoro e assistente zonale delle Acli.

Ho ascoltato le voci di imprenditori e sindacalisti, di operai che incontravo ai cancelli delle fabbriche nei cambi di turno, nei gruppi e nelle occupazioni di fabbrica, nelle visite alle loro famiglie e nei gruppi Acli.

Ho potuto seguire anche importanti convegni nazionali per gli assistenti e per i dirigenti dell’associazione. Mi sono confrontato con il clero.

Tante storie vissute e tanti modi di porsi come cristiani mi hanno sorpreso e coinvolto.

La terza fase l’ho vissuta come parroco quando, allontanato dalla pastorale nel sociale, ho fatto a Pordenone una ricerca biblica e sociologica sull’esperienza vissuta, entro un triennio di aggiornamento teologico.

Da essa è maturata la decisione di lavorare in fabbrica.

Si trattava del lavoro stagionale delle bietole, che mi ha impegnato per cinque anni nei mesi estivi ma ha incrociato anche la lotta contro la chiusura dello stabilimento in cui mi sono trovato tramite tra il vescovo, il clero locale e le maestranze.

Queste fasi successive mi hanno cambiato.

Ora non cerco la dottrina e le iniziative per trasmetterla ad altri ma cammino con la gente e scopro il volto nuovo e affascinante del Cristo, che viveva con un gruppo di amici e  amiche e annunciava il vangelo camminando con gli ultimi del suo tempo.

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Dici questa cosa da te

o altri ti hanno detto di me?                                 a cura di don Carlo    [ 8 ]

 

Mentre preparavo l’omelia di domenica scorsa questa domanda di Gesù a Pilato richiamò al mio animo la pastorale nel mondo del lavoro. Il vescovo Antonio, appena entrato nella nostra diocesi, mi ha chiesto com’erano i rapporti tra il suo predecessore e noi preti che operavamo nel sociale. Risposi che c’era una buona intesa. Ed egli osservò: Come mai le Congre-gazioni romane mi hanno detto di togliervi l’incarico se non è stato il vescovo Albino ad informarle? La cosa non mi convinse, perché conoscevo il vescovo che mi aveva ordinato prete e sapevo che il nostro lavoro dava fastidio ad altri, imprenditori e politici, che non mancavano certo di canali di comunicazione. Ho avuto l’impressione che il vescovo si fosse esposto troppo e tenni la cosa per me. Paolo VI aveva tolto gli assistenti alle Acli e gli aclisti si sentivano sconfessati e qualche leader guardava con sospetto don Aldo, assistente provinciale, e don Ilario, assistente diocesano, imma-ginando trame nascoste. Ricordo un incontro nel Quartier del Piave in cui mi è stata rivolta apertamente l’accusa di stare con la Gerarchia e in cui non ho potuto parlare, perché, diceva la leader, “sapevo parlare”. Venivo allontanato dal vescovo perché ero fedele alle Acli e dalle Acli perché ero fedele al vescovo e non potevo parlare per non dare motivo a una parte di vincere la partita sulla pelle della pastorale. Il vescovo ci esautorò dall’incarico e mi mandò parroco a Gainiga. Tu sei intelligente, mi disse, e hai la mamma con te e ti inserirai bene nel nuovo incarico. Ricordo che un don, che giustamente attendeva la nomina a parroco prima di me, mi ha detto: Che cosa bisogna fare di male per divenire parroco? Si riferiva alla regola non scritta “promuovere per rimuovere”, ma in me urgeva un’altra domanda: Come mai rompiamo le uova raccolte nel paniere? Si poteva verificare insieme la situazione e trovare persone e soluzioni nuove salvando la pastorale che avevano suscitato tante speranze. Si è voluto azzerare un’esperienza generosa senza preparare una valida alternativa. Altri, estranei alle fatiche pastorali, possono dire in segreto di noi e sono creduti e le esperienze vengono bruciate. Quante volte avviene così!

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I vicini e i lontani                                                 a cura di don Carlo    [ 9 ]

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Sabato scorso nell’eucaristia festiva ho ricordato don Isidoro, insieme con un gruppo di amici che operavano con noi nel mondo del lavoro. Quella mattina in montagna lungo il corso del Piave alcuni intimi avevano disperso le sue ceneri. Non voleva cerimonie religiose e civili ma preferiva acco-miatarsi in solitudine dalle due grandi passioni della sua vita: la Chiesa e la società. E in esse dalla sorte degli ultimi. La nostra comunità non conosce questo testimone originale e solitario e sono contento di poterlo pre-sentare ora. Il modo con cui si è accomiatato da noi è un segno della solitudine in cui ha operato: seguito da pochi e incompreso da molti. Il suo non mi pare un rifiuto ma una generosa presa d’atto: non credo che lo avrebbero accompagnato il suono delle campane o il plauso della società.

Ci ha evitato di fare brutte figure. Se c’è qualcuno da rimproverare quello siamo noi che non gli abbiamo voluto abbastanza bene. Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai. Spero che sia ritornato in pace nella crea-zione da cui è venuto: essa è la casa di Dio e riconosce quello che è suo. Dopo la Messa il gruppo ha fatto un breve ricordo. Riconosciamo nella sua vita tre qualità belle. E’ vissuto e ha operato in buona fede, perché si è donato gratuitamente per gli altri. Se avesse cercato titoli o privilegi avrebbe fatto scelte diverse. E ne aveva la possibilità. Una seconda virtù era la generosità che in lui diveniva anche radicalità. Non ha rispettato molto la divisione dei ruoli tra prete e laici e tra i vari gruppi sociali, ritenuta allora e oggi importante: ove la causa degli ultimi chiamava  era pronto.

Ci ha lasciato anche un esempio di coerenza tra il dire e il fare e tra il dirlo in privato e il predicarlo sui tetti: essa disarma tanti nostri pregiudizi.

Ci sono ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi, dice Gesù.

Quando anche per me giungerà il momento di congiungermi ai padri che mi hanno precedutò nella fede andrò a cercalo tra i preti e credo che non lo incontrerò tra gli ultimi ma davanti a me. Intanto lo guardo, cerimoniere attento, nel momento della mia ordinazione presbiterale in cui il vescovo Albino mi unge le mani: è in piedi accanto a me, in una foto che l’amico don Ruggero ha riprodotto su tela e che da allora sta davanti al mio letto.

 

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Ora una nebbia scende                                a cura di don Carlo    [ 10 ]

                                                                                              

e copre questa terra tra due fiumi. Sono parole di una lirica che don Pino compose per il saluto al vescovo Giuseppe, che lasciava la nostra diocesi per quella di Udine, 56 anni fa. La recitò lui stesso, maestro mite e umile, nella cattedrale gremita di popolo. Avevo 18 anni e da allora nella comunità tra due fiumi ho conosciuto altri eventi pieni di luce che poi si sono diradati nelle nebbie. Il Concilio ha suscitato calore e attese ma presto-presto si è creato il freddo e abbiamo smarrito riferimenti comuni non ancora maturi  ed è rimasto in noi il vuoto delle occasioni perdute. Penso ai confratelli nel nostro presbiterio e al disagio reciproco che proviamo di fronte a scelte e a esperienze diverse che dividono invece che arricchire la nostra Chiesa.

Ero a Campolongo da poco e un prete nato qui mi ha telefonato per celebrare una messa per la sorella nella nostra chiesa. Lo ho invitato a concelebrare con noi l’eucaristia con i vespri e mi ha sorpreso con una violenza verbale unica: cosa sono queste novità? E ha riunito i suoi in una parrocchia ospitale della città. Quanti fedeli in questi 27 anni, in occasione di battesimi, matrimoni, messe e perfino funerali, hanno lasciato la comunità per recuperare altrove le loro certezze effimere e hanno trovato un superiore o un confratello a rassicurarli: eravamo poco accoglienti. Il Concilio era il dono grande di Dio alla nostra epoca, diceva il papa, e il vescovo ci esortava a condividere l’eucaristia e la preghiera delle lodi e dei vespri. Ma per i preti importava accogliere le vecchie tradizioni più che questi doni.

Alcuni anni dopo il don si è tolto la vita. Per lui non è mancato il funerale presieduto dal vescovo e la solidarietà del clero nella preghiera ed anche la mia presenza nel presiedere la processione al cimitero. Gli era mancato un amico in cui confidare per ricevere sostegno nel momento della crisi. Tutti i nodi giungono al cuore: siamo presenze silenziose in una relazione delicata da non disturbare con la correzione fraterna. Ma il prete fa parlare di sé anche quando è lontano dalle nostre sensibilità, per la  presenza del Dio che gli è fedele ovunque vada.  Per me vivere è Cristo, scrive S. Paolo. Indica ciò che è decisivo. Quando la nebbia scende sulla terra fortunato chi ha il figlio di Dio per amico e un fratello o una sorella mano nella mano.

 

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Aspettando il bambino                                       a cura di don Carlo    [ 11 ]

 

Macintosh HD:Users:famiglia:Desktop:DSCN7219 2.JPGOggi in chiesa troviamo il presepio che farà da icona alla liturgia natalizia.

Manca il bambino. Si accavallano i ricordi. Nella mia infanzia la grotta era la casa con il pavimento in terra battuta e il larin e aggrappata ad essa la stalla con la bianca e il suo vitellino, cui facevano compagnia i conigli sotto la greppia e nel fienarol e, appena fuori, gli animali del cortile. La natura declinava da padrona verso il fondo valle per poi arrampicarsi fino all’antica pieve del Feletto. Il lampion a petrolio rischiarava la sveglia. Poi si percor-reva al buio il lungo sentiero ripassandolo a memoria per evitare le cadute o la fossa ghiacciata. Il tempo per cambiare le calzature sotto il portico e arrivavi in chiesa dove il prete diceva tre messe, una dopo l’altra, e non capivi qual’era.

Più in là negli anni ho iniziato a farmi prete a Saluzzo, in un luogo francescano, e nel seminario.

Lì c’era solo il bambino. A letto presto dopo cena, sveglia vicino a mezzanotte, il tempo di inumidire gli occhi e poi in cappella con l’organo, il gregoriano e le due stelle create con tante candele accese sopra l’altare. E poi ancora a letto per essere svegli per la Messa dell’aurora e il pontificale. Natale con i tuoi, declina il proverbio, ma noi li avevamo lasciati a casa per seguire il bambino. Intanto i tempi corrono. Ci ha pensato il benessere a vestire il presepe di statuine, di cascate, di panorami prodotti da fervide fantasie e di luci che alternano il giorno e la notte. E si sono aggiunti i doni sotto l’albero, composto accanto al presepe.

Oggi manca il bambino: la maggioranza dei cristiani non ha tempo e fiducia e amore per accoglierlo. Si può stare devoti davanti al presepe senza la parola che educa e il pane che nutre la vita. Occorre un presepe vivente che attiri vicini e lontani, dove siamo noi la vergine madre, lo sposo e il padre adottivi, i pastori e i magi che chiamano gli angeli a cantare per il bambino. Il Concilio ha aperto una strada felice che nel tempo si è fatta stretta e piena di agguati. Ma è sempre Natale e il Padre suo e nostro non corre con i tempi e non lascia solo il suo bambino. Ninna nanna!  Buon natale, Gesù!

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Il tuo volto io cerco                                      a cura di don Carlo    [ 12 ]

 

Epifania non è ancora il giorno ottavo che riempie ogni desiderio, perché ciò che vediamo ora si rende fruibile solo all’alba del nuovo giorno. Negli anni delle elementari la maestra ci invitò a raccontare un  sogno. Io sognai mio papà che mi aveva lasciato per il cielo a sette mesi dalla mia nascita, dopo una malattia che non si fermava, come la sesta gestazione nel grembo di mia madre: non lo conoscevo ma era, e intensamente, con me.

Non ricordo le parole che toccarono il cuore della maestra che volle avere le sue colleghe con sé a leggerlo in classe. Era un sogno ad occhi aperti, la presenza accarezzata lungo la giornata della vita. L’ho sognato ancora quando le mie sorelle si sono sposate e i miei fratelli hanno conosciuto l’emigrazione e poi lungo il tempo serio della mia formazione, tempi della solitudine degli affetti. Talora mi sembrava di goderlo nelle persone che incontravo come si cerca un padre. Brevi sogni mi sfioravano dolcemente e il volto mi appariva per poi sfumare di nuovo. Forse mi è rimasto il cuore solitario del bambino che sognava di diventare marinaio. O forse il Signore voleva farmi capire che il padre di cui avevo nostalgia ce l’avevo già. Anche Gesù aveva un padre a cui non sapeva abbandonarsi appieno, sempre in ricerca del volto del padre suo. E il giorno in cui ha confidato di voler  occuparsi di lui, i genitori che aveva non l’hanno compreso. Gesù era poeta e contemplava il volto del padre suo dove a me, più legato alla terra, occorreva altro tempo per riconoscerlo. Chissà se i cristiani in questi giorni hanno pensato al padre di questo bambino, per capire se anche per lui era indovinato il canto degli angeli “gloria in cielo e pace sulla terra” o se una lacrima solcava il suo viso mentre lo vedeva attraversare, solitario e spoglio della corazza divina, una carne creata a sua somiglianza ma ingrata e seminata di inganni; se si sarà consolato dicendo: ma ci sarò sempre io con lui. L’amico del cuore, cui Gesù confidava i segreti, ha raccomandato che Dio lo si conosce quando si ama il fratello e il papa originale, quello eletto da Gesù stesso, ci ha esortati ad amarci sinceramente di vero cuore.

Amare è la cosa più bella del mondo. Chissà perché resta un tesoro nascosto e a noi costa tanto impegnare gli averi per liberarlo e goderlo.

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Dio ti vede!                                      a cura di don Carlo    [ 13 ]

 

Tre lati uguali e distinti compongono la figura che indica perfezione e rac-chiudono un occhio che vede in estensione e in profondità. Il triangolo emerge dall’aureola della santità, scolpita nella fascia che decora la nostra vasca battesimale. La precedono e la concludono tre foglie. Al centro una sorgente alimenta la fontana cui anela la cerva e attinge la croce abbrac-ciata all’agnello. L’opera indica, in modo delicato e squisito, Dio amore.

La Bibbia dice che l’amore ci porta alla perfezione, perché come è Dio così siamo anche noi: Dio non genera timore ma anelito alla pienezza della vita.

Nella mia giovinezza il triangolo era seguito dalla scritta nota: Dio ti vede!

Abbiamo ripassato lungamente il terzo capitolo della Genesi che inizia con il serpente e poco i primi due che iniziano con Dio. Ho avuto paura perché sono nudo e mi sono nascosto, confessa Adamo. Ma gli alberi del giardino in realtà nascondevano a lui il Signore, che è solo e sempre amore. La mia casa nelle mire alte aveva un piano terra in terra battuta. Era formata dalla cucina con il larin, il cavedon e la catena che pendeva dal camino: vi si cuoceva anche il pane fino a quando la cresima ci ha portato una cusina a legne fatta a mano. A lato era situato il secer con i secchi in rame appesi per proteggere l’acqua che andavamo ad attingere con il bigol alla sorgente di fondo valle. Una volta mi è toccato di frenarmi bruscamente perché nei secchi era parcheggiata la grappa in attesa della notte, quando veniva sepolta nel bosco, protetta da occhi indiscreti. Una scala accedeva al piano sopra, dove c’era l’unica camera composta con legno rimediato dal bosco. Serviva per dormire o per guarire o per morire, perché non c’era bagno né acqua né luce e il lampion era un  pericolo, per pippo che sorvolava, per il legno e i paion de scartoze. Più sopra sotto i coppi c’era la soffitta bassa cui si accedeva su una scala a pioli, negata ai bambini, e si tenevano cose da consumare con il calendario. La casa si praticava dalla cucina. La “dottrina” invece si mandava a memoria entrando dal terzo capitolo invece che dal primo. Così abbiamo imparato il peccato e la paura, e il Dio che guarda con amore è rimasto nascosto dagli alberi fino all’ultimo Concilio. Fossimo costruttori di verità praticabili e non ripetitori di idee: Dio sarebbe amore.

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1962-2012

Stabat mater.                                      a cura di don Carlo    [ 14 ]

 

Melodia gregoriana del 1200, composta di venti terzine del latino medie-vale, abrogata nel 1500 dal Concilio di Trento e ripresa da papa Benedetto nel 1727 e ora facoltativa nella memoria dell’addolorata e nella via crucis: manifesta nei secoli il decadimento della devozione a Maria. Le prime due parole abitano il vangelo di Giovanni. Maria stava come madre alle nozze di Cana: non era più attenta e più buona di Gesù né era li per dirgli che cosa fare, come le mamme che trattano i figli come fossero sempre bambini; forse stava lì per dire ai servi, lei donna di fede, di obbedire in tutto a Gesù, perché quello che stava per fare inaugurava la gloria sua e nostra.

Maria stava come madre sotto la croce:  non da disperata come starebbe una madre solo terrena, ma come la voleva il padre di tutti, a servizio del mistero che li si rivelava. La croce non è una tragedia ma un investimento buono, l’epifania di Gesù sacerdote e un bene per l’umanità.

La croce è buona anche per lei, perché il figlio dalla croce la vede là pronta per la seconda annunciazione: divenire madre dei suoi discepoli.

Chissà perché la devozione non si disseta all’acqua sorgiva ma invece a meandri inventati e santifica una tradizione melensa. Bastava valorizzare quello che Giovanni scrive a seguito delle due parole iniziali o forse imparare che una madre non sta bene da sola, lontana dal figlio e dalla sua sposa, e non è buona quando dispera o quando sembra più amabile di lui.

Ricordo come una liberazione, per Maria e per me, il momento in cui i padri conciliari decisero di parlare di lei non in un documento tutto suo ma entro la costituzione sulla Chiesa: finalmente potevo guardarla come madre che continua a servire il mistero. Ora è circondata da un’aureola ingannevole: nasce sempre un papa più sensibile alle devozioni che al mistero che si rivela nelle persone. E a me tocca apparire in disaccordo con la Chiesa mentre la servo nelle cose vere. I devoti non faticano costanti a cercare oltre: rincorrono i suoi messaggi, quando lei ha solo custodito la Parola per capirla e invitato a praticarla; rincorrono miracoli di lei che nella sua vita terrena non ne ha cercato o fatto neppure uno. Sono devoti che non la riconoscono nell’icona biblica del nostro trittico ma nella statua di legno.

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1962-2012

Cantate al Signore un canto nuovo.  a cura di don Carlo    [ 15 ]

 

Sei salmi manifestano la voglia dell’orante di esprimere nel canto la novità che rallegra il suo cuore. Anche il Signore, che fa nuove tutte le cose, attende la preghiera abitata dalla vita. Chi canta, si dice, prega due volte: canti una e preghi due. Ma quale canto? Nella parrocchia in cui sono cresciuto mi commuoveva il suono del racolon e il canto delle letture del mattutino, mentre noi chierichetti spegnevamo ad una ad una le candele sul candelabro, attenti ai sussulti del parroco don Carlo, che avvertivano che le cadenze del canto storpiavano il senso delle parole latine. Negli anni del seminario non si poteva parlare con compagni due anni più avanti o più indietro e trasgredire le regole obbligava a confessarsi. Le prove del coro, che univano varie età, erano la nostra occasione prossima di peccato. In cattedrale provavamo una Messa in cui anche l’assemblea seguiva un suo spartito musicale e l’organista faticava a mandare a memoria il susseguirsi delle note e io ingannavo le distanze rufianandomi con un chierico, Carlo anche lui, e il suo orologio a cipolla seminascosto dalla talare. Giovane prete, a tarda sera dopo la riunione, condividevo i canti di montagna e del lavoro con operai e operaie, seduti sulla ritonda di un’osteria a  stuzzicare il fuoco, con la polenta che brustolava, qualche fetta di soppressa e un goto de quel bon che innaffiava la gola. Arrivato parroco a Campolongo raccomandavo al coro di non prendere il posto dei fedeli ma di esprimerne la preghiera. Anni dopo, quando il coro non reggeva, ho proposto in accordo con il vescovo Alfredo, il canto dell’assemblea guidata da un grup-po di voci esperte, ma, anche 27 anni dopo, non ci siamo ancora capiti.

Ora riconosco il canto delle persone unite dall’amicizia e dalla  solidarietà, come sulla ritonda, dove le stecche non mancavano ma non sminuivano la gioia di cantare valori condivisi. Credo che anche il Signore non ami i cori perfettini come un cd, che non emana il calore di chi spezza insieme il pane della sua parola e della comunione. Benedetto il Concilio che ci dispensa dal latino e ci lascia usare parole che si capiscono e ravvivano le brace dalla cenere: i valori che crescono appartenenze e pacificano i cuori in un canto nuovo. Come cantare i canti del Signore in terra straniera?

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1962-2012

Chiesa e mondo del lavoro.                          a cura di don Carlo    [ 16 ]

 

La nostra costituzione inizia dicendo che l’Italia è una repubblica democra-tica fondata sul lavoro.  E la Genesi dice che Dio, in principio, affida all’uo-mo e alla donna, che stava creando, la terra da gestire: lavorare è aver parte alla benedizione iniziale. Come cittadini e cristiani dunque siamo chiamati a misurarci con questo nobile compito ma non è mai facile.

Ricordo la realtà operaia, che negli anni 1964-66 era già presente in quasi tutti i paesi della nostra diocesi, e la crisi che aveva provocato nella pasto-rale tradizionale. Il Concilio e l’impegno convinto del vescovo Luciani segnano una reazione profonda. Il vescovo non prende posizioni definite, lascia che tutto si giochi sul campo e incoraggia coloro che si impegnano nel sociale sperando che la pastorale nuova venga col tempo condivisa da tutti. Il ricordo di quel momento merita di essere recuperato perché nel tempo è stato rimosso, come dimostra la ricerca di Pantegrini  titolata “Nati schiavi ma figli di re”. L’autore ignora del tutto questo momento pastorale e così impoverisce di molto la testimonianza data da don Ilario e dalla diocesi.

La pastorale per il mondo del lavoro nella sua prima fase è povera, per l’inesperienza di chi vi opera, ma diventa ben articolata verso il 1967.

Vengono costituite cinque zone pastorali, provviste ognuna di un sacerdote a tempo pieno: Vittorio Veneto con me (1967), Conegliano con don Ilario Pellizzato e don Isidoro Rosolen, Sacile con don Benito Introvigne (1969), Quartier del Piave con don Battista Barbaresco, Oderzo con don Giorgio della Colletta (1967) e don Angelo Pavan (1969). Lavoriamo in equipe in un campo ancora inesplorato, partecipiamo a corsi di formazione, siamo presenti ai momenti significativi del movimento operaio: i gruppi operai nei circoli e nelle fabbriche, il congresso, i convegni e le iniziative di formazione. Viene costituita la Commissione diocesana per il mondo del lavoro di cui divento responsabile e che rappresento nella segreteria pastorale presieduta da don Narciso Dassié. Rappresento anche i preti giovani nel Consiglio presbiterale, mentre don Ilario è in quello pastorale e don Narciso in tutti due. Questo impegno ha generato dialogo sincero e reciproco aiuto in molte persone che erano lontane, valorizzando sia il lavoro  sia la vita di  fede.

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1962-2012

Due mondi a confronto.                                     a cura di don Carlo    [ 17 ]

 

Nel 1971 il vescovo Antonio mi ha annunciato la nomina a parroco imma-ginando una deriva della pastorale diocesana nel sociale. Da parte mia gli lasciavo una memoria scritta in cui la difendevo come l’esperienza più bella. Allora una parrocchia, senza arte né parte, aveva il fascino sufficiente per mascherare il fallimento che l’autorità voleva ed ora, dopo oltre 40 anni di navigazione nella pastorale delle parrocchie, vedo la giovane esperienza di allora come una primizia. Il Signore mi domanda di continuare a verificare una delle intuizioni più feconde e scomode del nostro Concilio: prima di essere prete sono parte del popolo di Dio e condivido il Cristo con molti fratelli ed essi mi liberano dal ruolo di primo della classe. La pastorale nel sociale insegnava a scoprire, preti e laici insieme, la comune dignità di cittadini e di cristiani e a rifiutare i “padroni di turno” che lesinano il lavoro come fosse una elemosina, e abbatteva il divario tra teoria e pratica, facendo  vibrare le corde dell’anima. Frequentando insieme la parroc-chia e la fabbrica si impara a difendersi dalle reazioni scomposte di questi due mondi e a superare la scollatura che li separa. Ricordo la sorpresa di alcuni  lavoratori nel vivere in positivo, nei momenti di preghiera comune, le cose che in parrocchia li allontanavano dalla Chiesa. Occorre maturare la religiosità che crea solidarietà e costruisce insieme giustizia e regno di Dio. Quando la fede incontra il lavoro nelle situazioni concrete della vita i due mondi si integrano a meraviglia. Accade quando la cultura e l’esperienza, maturate nelle lotte per liberare i valori di tutti e nei ritiri di meditazione sulla parola del Signore, responsabilizzano rispetto alle contraddizioni che emergono dalla vita, sconfiggono le tentazioni di difendere la propria verità e scoraggiano dal cercare le soluzioni di autorità. Il clima si può fare incandescente e talora intollerante, ma la pastorale vissuta da lavoratori e preti insieme, è buona e significativa sia per la Chiesa sia per il tessuto sociale. Il vescovo ha cambiato le persone dedicate alla pastorale nel mondo del lavoro e, bypassando il cammino fatto fino allora, ha  spento un dialogo che chiedeva solo di essere migliorato. Ora i due mondi sono di nuovo divisi e il lavoro ha perso le sue conquiste e la Chiesa predica senza che il mondo la ascolti. Questa era la vera deriva che dovevamo evitare.

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1962-2012

Parroco e operaio.                                                  a cura di don Carlo    [ 18 ]

 

Il 7 dicembre 1965, il Papa e 2391 padri conciliari hanno emanato la costi-tuzione “Chiesa e Mondo”. Inizia con questo proemio: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto, sono pure dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Mandata ad annunciare il vangelo a tutti, la Chiesa trovava nel mondo del lavoro un campo attraversato da interessi contrastanti e si dimostrava più sensibile alle ragioni dei datori di lavoro che a quelle dei lavoratori. Intanto dal 1969 alcuni chierici del nostro seminario fanno l’esperienza del lavoro, 15 a tempo pieno ed altri nel periodo estivo, e dal 1974 la fanno anche cinque preti a tempo pieno e due parroci. Condividono la condizione operaia partecipando alla fatica comune e all’impegno per tutelare la dignità e i diritti dei lavoratori.

 Avevo lasciato la pastorale del lavoro in diocesi ed ero parroco da poco.

Trovo lavoro per il periodo estivo a Ceggia, nello stabilimento per la lavorazione delle bietole. Lo faccio di mia iniziativa per avvicinare la parrocchia al mondo del lavoro e suscito sorpresa e il disappunto di molti. Inizia una pressione anonima e discreta sulla Direzione della fabbrica per annullare l’assunzione e ricevo la solidarietà dei compagni di lavoro.

Il Prefetto di Venezia scrive al vescovo per contestargli che un parroco con la congrua non poteva lavorare e si muovono i politici locali. Inizio a lavorare ed il vescovo mi scrive una lettera preoccupata perché mettevo a rischio la dimensione verticale della vita a favore di quella orizzontale.

Ma lavorare non può costituire un pericolo quando lo si fa per vivere la dimensione cristiana insieme con gli operai. Le mie cinque stagioni di lavoro sono state poca cosa rispetto alla testimonianza dei  preti che per lavorare hanno lasciato la pastorale normale e due anche il loro posto tra i presbiteri. La gente faceva fatica a riconoscermi nel ruolo di operaio e di parroco e ne parlava nei vari luoghi di aggregazione. Non era il mio lavoro a scandalizzare ma il cambiamento che generava nelle relazioni ecclesiali e sociali: ero il prete di una parte e non di tutti. Ma l’auspicio del Concilio che le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei lavoratori sono pure gioie e speranze dei discepoli di Cristo cominciava ad attecchire anche da noi.

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1962-2012

Che cosa mangia il papa?                                    a cura di don Carlo    [ 19 ]

 

La rinuncia di Benedetto XVI al ministero pontificio ha suscitato l’attenzione dei media di tutto il mondo e può avere una ricaduta nella teologia e nella prassi ecclesiale: il papato può diventare umile come le altre istituzioni umane e religiose. La decisione è stata solitaria, lontana dalla ricerca del  consenso ecclesiale, e le modalità con cui è avvenuta obbedisce alle vecchie logiche che circondano il papato. Una prassi nuova così rilevante non si inventa in un giorno. Ricordo di aver visto Paolo VI la prima volta nella basilica vaticana e un’altra volta, alcuni anni dopo e insieme ad un folto gruppo di Assistenti delle Acli, nella residenza estiva di Castel Gandolfo.

Partecipavo a un convegno sul mondo del lavoro con l’amico don Giuseppe e condividevo con lui l’impegno della segretaria del Convegno. Don Cesare, l’assistente centrale, mi aveva scelto per salutare il papa con lui a nome di tutti. Ho ceduto il posto a un don che seguiva gli emigrati italiani in Germania e che quel giorno celebrava l’anniversario dell’ordinazione, rimediando un gelato per tutti i convegnisti. Dopo quel convegno romano don Giuseppe è stato chiamato a Roma per fare il vice assistente centrale della Acli e per laurearsi in sociologia. Più tardi Il vescovo Albino mi disse che qualcuno nel compilare la richiesta aveva scambiato il mio nome con il suo. I nostri assistenti convenirono che lo scambio del nome era stato provvidenziale per noi, per proseguire la nostra esperienza in diocesi. 

Poco dopo incontrai l’assistente centrale delle Acli a Triuggio, nella provincia di Monza e della Brianza, a un nuovo convegno degli assistenti.

In un momento di sosta, nel bar della casa, mi ha detto: vieni anche tu a Roma; se vieni ti porto a cena dal papa. Mi è venuto spontaneo rispondergli: che cosa mangia il papa? Accanto ai lavoratori avevo maturato l’allergia al culto della personalità e alle varie devozioni e la fedeltà nel vivere e promuovere esperienze autentiche di liberazione.

Anche quando il vescovo Albino divenne papa e il suo successore venne a Vittorio Veneto non sentii la nostalgia di incontrarli. L’amicizia con don Cesare, che aveva contribuito molto alla mia formazione nell’ambito della pastorale sociale, terminò lì: quando Paolo VI tolse gli assistenti alle Acli lo nominò vescovo e noi non ci siamo più né visti né sentiti.

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1962-2012

La confermazione                           a cura di don Carlo [ 20 ]

La gente la chiama “cresima” per via dell’unzione con il crisma che pone il

sigillo di Dio su chi viene cresimato e lo rende membro del corpo del

Signore e della Chiesa, sua sposa. Il nome rimanda anche a Cristo. Il figlio di

Dio infatti è chiamato unto, come lo erano i sacerdoti, i re e i profeti, scelti

e consacrati da Dio, perché fin dalla nascita è rivestito del carisma sacerdotale,

profetico e regale e ora lo comunica a chi crede e viene battezzato.

Ricordo la mia cresima celebrata 68 anni fa a S. Pietro di Feletto. Non era la

mia chiesa parrocchiale ma era la più vicina e scandiva con il rintocco delle

ore e il suono dell’avemaria il ritmo delle giornate delle famiglie contadine.

Ho ricevuto la cresima insieme con un mio fratello, anche se non avevo

ancora fatto la confessione e la prima comunione. La mia preparazione

consisteva in poche formule del catechismo mandate a memoria e per i

genitori non era previsto nulla. Abbiamo raggiunto la chiesa a piedi, tutta la

famiglia meno la mamma, rimasta a preparare il pranzo. I santoli che ci

precedevano nei sentieri, ci chiamavano con voce forte, che risuonava nella

valle come un tam-tam, perché eravamo in ritardo. Quando siamo arrivati

la Messa era alla fine ma il vescovo Giuseppe, prima della benedizione, ci

ha conferito il sacramento nel presbiterio davanti al’assemblea, richiamando

per noi il tema dell’omelia che da allora è ancora inciso nella mia

memoria e nel mio cuore: il soldato di Cristo vive a testa alta e con le mani

pulite. L’immagine del soldato che combatte con lealtà e coraggio e

l’onestà della vita erano la dote della cresima ed anche il suo dono.

Quel giorno non è mancata la festa: avevamo il vestitino per l’occasione e i

santoli avevano portato alcune paste per noi due e mille lire per la mamma.

La cresima era una festa in famiglia e noi per un giorno eravamo il centro

della attenzione e degli affetti. Tante famiglie la vorrebbero ancora così,

anche se il ristorante non crea lo stesso clima intimo di festa.

Oggi il sacramento lo chiamiamo confermazione e suppone i percorsi

ecclesiali compiuti fino ai 15 anni con la partecipazione attiva della famiglia.

E per alcuni il sacramento si compie in una vita consapevole e bella, mentre

per altri costituisce il biglietto di congedo. Esprime la nostra religiosità.

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1962-2012

In tandem                                                                    a cura di don Carlo    [ 21 ]

 

Avevo confidato al vescovo Eugenio il desiderio di fare un’esperienza in cui unire la pastorale alla preghiera e alla contemplazione, come avveniva a Marango di Caorle e in altre comunità che avevo incontrato a Finale Emilia. Il vescovo mi ha accennato a un desiderio analogo di un prete al lavoro. Don Ovidio mi aveva ventilato l’opportunità di “venire su” dal servizio di parroco che svolgevo da 14 anni a Gainiga. Nel frattempo mi è giunto un invito di don Giampietro a verificare le nostre aspirazioni e la possibilità di metterci insieme. Nell’estate abbiamo programmato alcuni giorni di ritiro nel monastero camaldolese di Fonte Avellana. E l’idea è cresciuta. Intanto si era resa disponibile la parrocchia di Campolongo e il vescovo ha convocato. noi e il Consiglio pastorale, in vescovado per valutare come attuarla.

Il 29 settembre 1985 ci ha presentato alla comunità di Campolongo affidandoci tre consegne. “Fate in modo che la giornata si apra con il canto della lode e che la stanchezza della sera sia santificata dalla preghiera del vespro. Invitate i vostri fratelli qui a pregare con voi”. “Fate in modo che l’eucaristia sia la mensa attorno alla quale i vostri fratelli si uniscono con voi. Non abbiamo altre forze come l’eucaristia”. “Tutti due siete ugualmente responsabili davanti al vescovo e alla comunità del vostro servizio”.

Gli inizi sono stati belli e entusiasmanti: noi eravamo contenti del nostro ministero e la comunità iniziava il rinnovamento che attendeva da tempo. Poi abbiamo imparato che aderire agli ideali è più facile che convertirsi. Ho vissuto la stessa sofferenza nella forania e più tardi nell’unità pastorale. Si corre in tandem ma al parroco rimane la responsabilità di indicare la direzione e di azionare i freni e il cambio e allora si affida alla passione che ha maturato camminando tanti anni con il Signore. Se non si condivide la passione sulle cose da fare diventa una sofferenza troppo grande.

Allora ho dato a don Ovidio la mia disponibilità a lasciare la parrocchia ma egli mi ha invitato a continuare: il Signore sa aprire strade nuove dove altre si chiudono. Tracce della strada percorsa sono raccolte in 23 piccole pubblicazioni. A volte le rileggo e mi confermano nel cammino intrapreso.

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1962-2012

La prospettiva                              a cura di don Carlo [ 22 ]

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La prospettiva permette di rappresentare un oggetto tridimensionale su di

un piano che ha solo la larghezza e l'altezza senza la profondità spaziale.

L’oggetto risalta così nella pienezza delle sue forme e nell’armonia con la

realtà che lo circonda. Negli anni della mia formazione, anche nei 28 anni

vissuti a Campolongo, mi hanno affascinato le relazioni che rimangono nel

tempo e anche oltre la morte, perché sono intrecciate nella prospettiva

della vita divina. Sono amicizie rare che non si esauriscono nella loro entità

terrena ma spaziano fino a partecipare alla tenerezza di Dio. Nella nostra

parrocchia in questi anni abbiamo vissuto con fatica l’accoglienza reciproca

e abbiamo scommesso su iniziative capaci di attirare e interessare i lontani.

Molti pensano ancora che la dimensione terrena delle relazioni porti da sé

a quella ecclesiale. Su questo tema spesso ci siamo colpevolizzati e divisi e

abbiamo impoverito ulteriormente le nostre relazioni. Ho imparato che le

relazioni fondate sull’umano sono molto provvisorie mentre l’avventura

cristiana parte sempre dalla iniziativa di Dio. Egli sa attirare proponendo il

suo mistero e la sua novità in modalità che non seguono la sapienza e le vie

umane eppure attirano con il loro fascino spirituale. Alla comunità Dio

chiede di essere se stessa, crescendo con sincerità nella dimensione di fede

e di grazia, in modo da accogliere coloro che egli chiama e unisce alla

comunità, perché trovino in essa il clima in cui maturano le cose del Regno.

La terza dimensione è curata dallo Spirito santo, la potenza di Dio che, nella

sua sapienza e potenza, costruisce in Cristo relazioni ecclesiali che superano

ogni possibilità umana. Ogni realtà diventa cristiana lasciandosi modellare

dallo Spirito che conduce alla verità tutta intera oltre le dimensioni umane.

Tertulliano, scrittore romano e apologeta, circa l’anno 200 d.C. riferiva

questo giudizio della gente sui cristiani: “Guardate come si amano!”.

La comunità cristiana ama in Cristo e accoglie in lui. La fede, la grazia e la

comunione ecclesiale sono le realtà nella quali Dio conquista il mondo.

Dio può far breccia nei cuori delle persone che ama anche se sono lontane.

Poi ha bisogno di una comunità che accolga i nuovi credenti o i nuovi convertiti

e si prenda cura di loro, offrendo la prospettiva cristiana della vita.

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1962-2012

Tempo di dimissioni                              a cura di don Carlo [ 23 ]

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Benedetto XVI il 28 febbraio 2013 ha lasciato di sua spontanea volontà il

ministero di vescovo di Roma e di successore di Pietro. I vescovi diocesani,

al compimento dei 75 anni, sono invitati a rinunciare all’ufficio che

svolgono dal Codice di diritto canonico e i presbiteri della nostra diocesi dal

Consiglio presbiterale. Le parole dimissioni e pensionamento però non

rendono bene la realtà della grazia. L’ordine sacro trasforma la persona che

lo riceve dandole una configurazione nuova e indelebile, come fanno il

battesimo e la confermazione. Questi sacramenti configurano le persone

per sempre o, come diceva la vecchia teologia, imprimono in loro il

carattere. In maniera analoga nessuno può dimettersi da figlio e da padre o

da madre, perché l’atto generativo li configura tali per sempre, anche se si

dividono o non si amano più. Il prete resta un dono di Dio anche quando le

forze gli vengono meno o è costretto al letto o alla carrozzina o lui stesso

desidera essere sollevato dall’ufficio che ricopre. Altra cosa è il luogo dove

opera o la mansione che esercita: gli viene conferita dal vescovo dopo

l’ordinazione e viene aggiornata secondo il bisogno della Diocesi. Dopo aver

compiuto i 75 anni ho incontrato il vescovo per capire cosa il Signore vuole

da me e per dargli la disponibilità a svolgere il mio ministero dove egli ritiene

opportuno. Infatti sono convinto che se siamo dove il Signore ci chiama,

abbiamo diritto anche di essere sostenuti da lui. Ho informato il vescovo

sulla mia situazione personale e pastorale, in quanto sento di dover essere

fedele a quello che il Signore mi ha insegnato in 50 anni di ministero.

Il vescovo Corrado mi ha chiesto di continuare il mio servizio a Campolongo,

perché ci sono le condizioni per un cammino positivo.

Questo continuare, nei limiti della mia età e della mia salute, richiede a

tutta la comunità una riflessione e un impegno rinnovati. Siamo posti

davanti ad una opportunità: la nostra comunità può diventare migliore di

quello che è ora se i laici scoprono e onorano la loro missione. Il battesimo

infatti dona a tutti di partecipare alla dignità sacerdotale, profetica e regale

della Chiesa. Se tutti la valorizziamo la comunità diventerà bella e sarà nel

nostro territorio, come il vescovo di Roma Francesco, una presenza

preziosa, che è fedele al Concilio e avvicina la gente alla Chiesa.

 

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1962-2012

Mire alte                                               a cura di don Carlo    [ 24 ]

 

Non descrivo le persone che vanno a cercare cose grandi e più alte di loro ma la vita in una collina del mio paese e nelle sue sette case incastonate tra boschi e vigneti, teatro dei mie sogni e delle mie avventure. Sono nato in casa 75 anni fa, ultimo di sei fratelli, e quella collina è stata la culla ed anche la prateria dove crescendo ho imparato a vivere. Mi piaceva a volte sparire da casa al mattino e tornare alla sera dopo aver vagato dove mi portava la curiosità. Alcune volte i miei mi chiamavano a squarciagola ed io ignoravo il richiamo e rincasavo prima che smettessero il lavoro dei campi. Altre volte tornavo quando mia mamma aveva già saputo da un biglietto della maestra, portato dai bambini, che avevo marinato la scuola.

La maestra ha provato anche a farmi capofila per impegnarmi ad essere presente fin dall’inizio ma il giochetto ha resistito due giorni appena. Un giorno ha annunciato ai miei compagni che mi tratteneva in castigo a casa sua. E io ho benedetto quel castigo perché ho mangiato con lei e con suo marito, che faceva il droghiere, cose buone che non conoscevo ancora.

Mi affascinavano il bosco e i prati con le piccole sorgenti a cui bere e i frutti di stagione: le giasene, le cornoe, le cuche e le nosee, le more, le primule, le ciliege duraseghe e marinee e i marascion, i perseghi, quei che se tien e quei che se slassa, i fighi bianchet e longhet e marzemin, i peri butiri e bartolomei e quei dea cotta, meno pregiati ma sempre buoni per la fame.

A volte ne scoprivo di nuovi: se sono buoni per gli uccelli, pensavo, lo saranno anche per me. Rispettavo invece l’uva e l’erba, beni primari di tutti e protetti nella cultura condivisa. Mi facevano compagnia gli uccelli: quelli piccoli che abitavano le siepi e quelli grandi che volavano alti nel cielo.

Tra essi temevo la poiana che piombava a rapire i pulcini alla loro madre e anche alle famiglie che li allevavano. Sapevo di dover evitare le vespe, con i loro alveari sotterranei lungo i zopal, e i serpenti che ti sfidavano striscian-do nel sottobosco. I rintocchi dei campanili ritmano la giornata di tutti.

La natura, per fortuna, non conosce i confini della proprietà privata e la provvidenza si prende cura di te quando varchi i solchi delle cose sicure e ami mantenere un po’ selvaggio il tuo cuore.

 

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1962-2012

Quando il pane non basta                                 a cura di don Carlo    [ 25 ]

 

Ricordo un mendicante seduto sul muretto di una casa signorile davanti al piatto colmo e all’ombra di vino che la padrona di casa gli aveva rimediato. Cadeva una pioggia fine e I’ombrello, povero come lui, lo ricopriva appena ma era contento. I  poveri allora avevano un nome e una dignità e dar loro da mangiare era un dovere. Quelli dei nostri giorni ti raccontano storie inverosimili o rincorrono gesti eclatanti come rubare, uccidersi o uccidere.

La gente della mia collina inventava tante cose per vivere. Raccoglieva le primizie dei frutti e le portava al mercato o nei paesi vicini dove le vendeva dopo aver percorso chilometri in bicicletta con due cesti imbragati sotto il manubrio. Allo stesso modo portava le castagne nei paesi della pianura e le barattava con la farina. Preparava richiami per attirare gli uccelli sulla vignola, un palo in cui aveva inserito, a mo’ di rami, bastoncini ricoperti di vischio. Preparava lacci con crine di cavallo e li tendeva su rami che intercettavano i loro passaggi tra le piante del bosco. E a sera, quando gli uccelli andavano a dormire pigolando sugli alberi, i giovani li stordivano con una campanella e li frastornavano con la luce della cetilene a carburo e con la zarbotana, un tubo di ottone, sparavano con la bocca palline di creta arrotondate su uno stampo. Con i frutti dei cornoer sparsi nel bosco facevano il vin piccol e vendevano quello d’uva per 50 lire al litro. A casa mia non c’era la cantina e il vino lo vendevamo a una trattoria di Ceneda, vicino al Seminario, dopo il primi due travasi e per qualche lira in più, perché le nostre uve erano maturate al sole. I miei lo portavamo a valle con il carro trainato da due vacche ed era un’avventura arrivare integri sulla strada camionabile. Con pazienza i contadini raccoglievano le more bianche e facevano la grappa e dai marascion ricavavano vino amabile e frizzante.

Le donne li conservavano nella grappa per un liquore buono anche per loro.

Se il lavoro manca uno s’ingegna. Anche la pastorale ora conosce tempi di magra: come al tempo di Gesù, le persone non lasciano comode usanze religiose per seguire i profeti. Le urgenze della fede portano a strade strette e faticose. Ora che il pane che Dio dona alla Chiesa non basta occorrono cristiani creativi, capaci di annunciare il vangelo con fantasia e generosità.

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1962-2012

Prete                                                                      a cura di don Carlo   [ 26 ]

 

Accadeva una volta. Il prete novello dopo la prima messa solenne distri-buiva ai fedeli che gremivano la chiesa un’immagine ricordo. La mia aveva evidenziata accanto al nome la parola “sacerdote”. In quelli anni il Concilio si accingeva ad aggiornare la teologia dell’Ordine, un sacramento sorto a servizio dei fedeli e cresciuto con la Chiesa secondo le necessità emergenti. La parola sacerdote è ora applicata a tutti i battezzati, perché sono inseriti in Cristo e partecipano al suo sacerdozio. Il sacramento dell’Ordine è un carisma unitario che si realizza in maniera piena nel vescovo e partecipata in grado diverso nel diacono e nel presbitero. Allora il diaconato era una tappa verso il presbiterato, senza esiti pastorali. Da diacono durante le vacanze di Natale ho battezzato un bambino nel duomo di Conegliano, su iniziativa il parroco, ma è stata un’eccezione. Ora invece il diaconato è un sacramento permanente a cui è annesso un ministero specifico. Il Concilio ha distinto anche il ruolo del presbitero e del vescovo. Si riteneva allora che il vescovo avesse in più del presbitero solo la giurisdizione e l’autorità.

La festa per la mia prima Messa è stata semplice come lo era la vita del mio paese ed è stata la liturgia a dare il tono a tutta la giornata. Ricordo infatti la Messa solenne, un pranzo veloce con poche persone e i Vespri. La mia prima Messa in realtà l’avevo concelebrata con il vescovo nella ordinazione, ma allora si riteneva prima quella celebrata in proprio dai singoli presbiteri. Indossavo una pianeta ricamata con alcuni pastorali e nel saluto iniziale mi avevano augurato di raggiungere il traguardo di vescovo: vedevano in lui il prestigio più che la testimonianza della croce e risurrezione del Signore. Ancor oggi è naturale a tanti vedere nel vescovo l’autorità e quindi il potere.  Il Concilio ci provoca a conoscere meglio il carisma dell’Ordine sacro e ad adeguarvi le parole ma è difficile che in futuro usiamo la parola presbitero per indicare il prete e sacerdote per indicare i fedeli. La parola prete, che si usava prima del Concilio, va ancora bene: traduce il greco presbyteros e il latino presbiter e designa il pastore di una comunità. Diacono, prete, vescovo indicano tre doni preziosi del Signore alla sua Chiesa. Ora, cinquanta anni dopo, ho una coscienza più chiara del dono di essere prete a servizio del sacerdozio comune e sono contento di esserlo.

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Parrocchia                                                 a cura di don Carlo    [ 27 ] 

 

Il nome è familiare a tutti ma il significato è ancora in evoluzione. Una volta la parrocchia era la porzione della Diocesi dove si svolgeva tutta la vita. Quand’ero bambino la gente era legata alla terra che abitava e lavorava; la mobilità non esisteva per mancanza di strade adeguate e di mezzi di tras-porto: coprivamo le distanze a piedi o con i carri trainati dagli animali. Pochi disponevano della bicicletta e solo i giovani avevano energie per arram-picarsi sulle strade di collina. Alla Pieve andavamo per il mercato, per informarci dei prezzi del bestiame e dei prodotti della terra e, se proprio occorreva, per la farmacia. La  sagra annuale era l’occasione per conoscere altra gente e per divertirsi fino a tarda sera, quando si “moeavano” i fuochi d’artificio. Famosi era quelli di S. Augusta a Serravalle: la si raggiungeva come in un pellegrinaggio. Nelle chiese vicine la gente andava il giorno del patrono  o dei funerali o dei sacramenti dei parenti. Anche il matrimonio per lo più si intrecciava fra i vicini. A Campolongo fino a poco tempo fa non era facile neanche parlare male di  qualcuno, perché poteva ascoltarti un suo parente. Oggi la mobilità è richiesta dalla scuola, dal lavoro e dagli incontri di cultura, di festa e di divertimento ed è più facile stabilire amicizie significative lontano che nel proprio vicinato. Nel contesto sociale moderno le parrocchie si trovano in concorrenza fra loro, perché la gente prende messa dove torna più comodo o più gratificante o meno impegnativo.

Importante è ascoltarla e non le persone con cui la si ascolta. Talora alcuni la consumano privatamente alla televisione come un film che mostra belle inquadrature, buona musica e cerimonie vistose. Invece quelli che giaceva-no a mensa con Gesù nel Cenacolo erano amici e nelle comunità delle origini i cristiani sedevano a cena insieme, in comunione tra loro, prima di avere comunione con Gesù. Parliamo di comunità ma restiamo isolati e lontani tra noi; risiediamo in parrocchia ma andiamo dove ci porta il cuore. Trasformare la parrocchia in una comunità costa fatica e le foranie e le nuove unità pastorali non aiutano. Anche la diocesi allontana da casa: dov’è il vescovo, si dice, lì è la Chiesa. Decisivo però è essere un corpo solo, quello di Gesù, ed essere guidati  dallo stesso Spirito di Dio che genera comunità.

 

 

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Una comunità accogliente                                    a cura di don Carlo    [ 28 ] 

 

Durante il mio servizio pastorale a Campolongo risuonava frequente l’invito ad essere comunità aperta ed era un inghippo per me e per le persone che si fidavano del cammino che stavamo aprendo insieme. Le cose venivano avanti a fatica, perché si misuravano sempre con il dovere di essere accoglienti. Le prediche brevi e facili adatte ai bambini o anche le catechesi che affrontano i nodi della vita cristiana? Le pratiche religiose tradizionali o anche la liturgia e i sacramenti sulla scansione operata dal Concilio? Gli spazi aperti a tutti o anche educativi per chi li frequentava? Sembrava ai più che bastasse l’accoglienza. Finché è emerso l’inganno: davamo per sconta-to di essere comunità mentre eravamo solo parrocchia. Chi accoglieva chi? 

Una parrocchia accogliente attira le persone alla pratica cristiana, si diceva. Gesù era certamente sensibile ai peccatori, in primo piano prostitute e pubblicani mal sopportati dalla gente per bene, ma non comprometteva il suo vangelo e non li associava al gruppo che lo seguiva. Quando la Parola suscitava la fede e le persone si convertivano a lui risorto dai morti, allora si aprivano le porte della comunità. Anche gli sposi novelli lasciano il padre e la madre per formare una carne sola: è preliminare a ogni vita in comune.

I discepoli di Gesù erano inseriti nel mondo ma come lievito. Il lievito non incolla ma mette in fermento. La comunità cristiana è per la parrocchia come il focolare che illumina e riscalda. Mi sovviene un ricordo. La strada delle Mire che dal pont de Maset conduce al Felettano e al Quartier del Piave, vicino alla Madoneta entra in una valle chiusa e si restringe a stradina bianca che costeggia il ruscello dove scorrono le acque piovane e la vena del Monfrin, fresca d’estate e tepida d’inverno come il clima che la circonda. Poco più in su è ancora intonsa una vecchia casa di contadini in cui il luogo più vissuto è la grande cucina. Il suo cuore è il fogher, la panca attorno al larin e uno spazio divisibile dal resto del locale. Lì si riuniva la famiglia per condividere la tavola e le cose del cuore. Il resto della cucina ospitava cose e persone che erano parte della vita.

Ora ritorna alla nostra comunità la nostalgia di frequentare luoghi più intimi che innalzino dalle cose acquisite che un tempo gratificavano e oggi non bastano a una comunità accogliente.

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Comunità e parroco                                    a cura di don Carlo    [ 29 ] 

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Nei piccoli paesi rurali del secolo scorso il parroco, il medico e il  sindaco erano figure di riferimento anche per ciò che andava oltre le loro funzioni. Era il tempo in cui le cose scorrevano sul loro alveo come le acque e gli eventi della vita si susseguivano, eguali e nuovi, come nelle stagioni.

Allora era normale riconoscersi nella pratica religiosa e nella parrocchia e le minoranze che vivevano al di fuori di esse erano facilmente identificate, come ai tempi di Gesù lo erano le prostitute e i pubblicani. La gente si riferiva ai preti con deferenza, perché riconosceva la loro cultura e la loro influenza sociale. Erano i consulenti naturali per i problemi della vita: il loro consiglio era cercato in particolare quando i giovani si innamoravano e la gente cercava o offriva lavoro. Si usava portare loro per riconoscenza qualche primizia dei frutti della terra o un animale ruspante o la brasoea del maiale che si uccideva. Nei paesi allora c’erano solo le prime classi elementari e alcuni hanno potuto completarle, più avanti negli anni, frequentando i corsi serali. Il Signore in quel tempo aveva tante possibilità di scelta per chiamare i ragazzi al seminario o alla vita religiosa, perché erano in tanti e la figura del prete e della suora esercitava un fascino speciale: doveva solo farlo presto, entro la quinta elementare, perché poi i ragazzi non avrebbero potuto fare il curriculum scolastico che era richiesto al prete. Il parroco custodiva allora le confidenze delle persone ed era, anche per questo, una persona familiare e rispettata. La vita di tutti poi era regolata dalle tradizioni e le votazioni politiche rivelavano anche la coeren-za religiosa. Ora siamo passati all’altra sponda. Il prete è cercato da una minoranza, gli altri lo contattano in alcuni eventi della vita, talora tramite l’agenzia o il  telefono: l’iniziazione dei figli, il loro matrimonio e le esequie dei morti. Il Concilio insegna che prima viene la comunità e il prete è al suo servizio. Ma, quando il parroco vuole essere fedele alla parola che ascolta e annuncia, le relazioni ecclesiali diventano fonte di tensioni, come al tempo di Gesù, perché i fedeli cercano più la loro gratificazione personale che la condivisione dei valori evangelici e i vescovi ascoltano più volentieri la gente che i loro preti. Gesù oggi troverebbe ancora  la  fede del vangelo ?

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Rigore e tenerezza                                   a cura di don Carlo    [ 30 ] 

 

La tenerezza è di casa nell’infanzia. Il bambino la impara da subito nel gioco con la madre in cui si matura il passaggio tra fusione e castità. Da questa esperienza primordiale la tenerezza filtra nelle altre relazioni per scontrarsi presto con la cultura degli obblighi e dei divieti. Al tempo della mia prima formazione era la figura del padre a forgiare alla vita adulta, dove serviva disciplina e sacrificio. Io non ho avuto accanto il padre a darmi sicurezza e ho dovuto farmi da me mutuandola da  padri adottivi diversi. In seminario non c’era spazio per le amicizie particolari e il Dio di casa era uno che spiava ovunque e premiava o castigava secondo i risultati che ottenevi. Divenuto prete ho visto far capolino l’idea che Dio è anche madre. Trentacinque anni fa papa Luciani ha affermato che Dio è papà, più ancora è madre, e venti anni dopo papa Wojtyla ha detto, con più prudenza, che la paternità di Dio riassume in sé le caratteristiche dell’amore materno. Poi ci pensò il papa tedesco a rimettere le cose al loro posto, scrivendo nel suo best seller su Gesù che il titolo di madre non spetta a Dio. Dio è solo e assolutamente padre; madre non è un appellativo con cui rivolgersi a Dio. Discorsi così diversi di padri così autorevoli non aiutano la sicurezza. Ma nelle Scritture troviamo che già i profeti dell’AT osarono dire: anche se una donna si dimenticasse del suo bambino e non si commuovesse per il figlio delle sue viscere, Dio non si dimenticherà mai di Sion. E ancora: come una madre consola il figlio così io vi consolerò. Il salmista poi chiama il suo Dio  tenerezza e dice che essa si espande su tutte le creature. Gesù più tardi si paragonerà a una chioccia che riunisce i pulcini sotto le sue ali. Ora papa Francesco osa dire: Non abbiate timore della tenerezza. La compassione che Dio prova per la miseria umana è paragonabile alla reazione della madre di fronte ai dolore dei figli. Dio ci ama come una madre. Sul piano pastorale la tenerezza da tanto tempo si è camuffata da buonismo. E la nostra comunità ha dovuto scegliere tra buonismo e rigore senza poterli risolvere. Il rigore infatti assicura mentre la tenerezza denuda: ti puoi affidare solo nella misura in cui l’amico ti riveste del suo amore.

Forse Francesco ci chiede di risolvere il dilemma nella comunità, per poter poi privilegiare la tenerezza.