SVEGLIATI TU CHE DORMI

E CRISTO TI ILLUMINERA’

 

 

OMELIE DEL TRIDUO PASQUALE 2003

 don Carlo Salvador

 

 

La regalità di Gesù.

L’anno pastorale e il triduo pasquale.

 

L’anno pastorale si è snodato fin qui dietro la croce, dove Dio annuncia un evento nuovo e raduna attorno all’Innalzato la famiglia dei suoi figli.

Nel triduo pasquale celebriamo Gesù che viene nel nome del Signore, regna dalla croce e risorge dai morti.

Il regno di Gesù non conosce violenza, perché non è di questo mondo.

Gesù è  veramente re dell’universo, perché tutto è stato fatto per lui e in lui.

Egli fa vivere tutto consegnando se stesso in un amore divino fino alla fine. La croce di Gesù non è un incidente di percorso dovuto alla follia umana e risolto il terzo giorno da Dio nella risurrezione.

La croce è icona del modo in cui Dio vive le relazioni, di come vivremo in paradiso, cioè della regalità a cui Dio ci educa.

Amare come ama Dio nel mondo segnato dal peccato significa amare fino ad essere perseguitati e crocifissi.

Occorre che i cristiani trovino il tempo e le disposizioni per mettersi in ascolto prolungato della passione sotto la guida dello Spirito santo.

Dice il Servo di Dio di fronte alla volontà del Signore: “Non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro (Is 50,5).

Il centurione romano arriva per primo a professare la fede cristiana.

“Allora il centurione, quello presente di fronte a lui, vistolo spirare così disse: veramente quest‘uomo era figlio di Dio!” (Mc 15,39). 

Il centurione è il soldato romano che ha eseguito la condanna di Gesù; è un pagano che non conosce la religione ebraica, che non ha ascoltato il vangelo annunciato da Gesù, che non ha visto i suoi prodigi, che non sa dei motivi per cui era stato consegnato ai romani.

E’ una persona che sta davanti al crocifisso e vede come muore; è cioè una persona attenta e sensibile, capace di cogliere le cose profonde, una persona che non dimostra pregiudizi su Gesù, i numerosi pregiudizi che si erano fatti coloro che lo avevano conosciuto: scribi, farisei e sacerdoti.

La professione di fede del centurione ha un’espressione sola, ed è quella decisiva: Gesù è uomo e figlio di Dio.

Che Gesù sia un uomo vero è evidente per lui che ha eseguito altre condanne alla crocifissione e sa degli insulti notturni dei suoi soldati verso Gesù. Egli sa che la sua passione e la sua morte è stata senza sconti.

Che Gesù sia figlio di Dio non è evidente per nessuno durante la passione; non lo sarebbe stato neppure se, come pretendevano i nemici di Gesù,  Dio o Elia fossero venuti a toglierlo dalla croce.

La fede del centurione nasce dal modo con cui Gesù muore.

La sua morte fa giungere un pagano alla fede in Gesù figlio di Dio.

Il testo non sottolinea qualche particolare di quella morte che abbia convinto il soldato, non parla ad esempio della grande sopportazione del dolore, a cui una certa teologia ha dato in passato importanza eccessiva.

Se non ci sono particolari bisogna farsi alla personalità religiosa di Gesù, al suo amore vivo e non rassegnato, attivo e non violento, l’amore che sa farsi carico del peccato della violenza del mondo.

La croce è parabola del vangelo che Gesù ha annunciato, dei prodigi che ha compiuto, del suo amore senza misure o confini.

Partendo dalla croce possiamo scrivere il vangelo.

Le comunità cristiane delle origini hanno fatto proprio così.

Un uomo che muore così pensa e vive come dice il vangelo.

La settimana santa annuncia la regalità di Gesù.

Essa contiene la rivelazione che il crocifisso è il figlio di Dio e che la regalità cristiana è vivere l’amore nel modo che solo Dio può.

La regalità cristiana non centra con la politica, i successi, le gratificazioni e i premi da meritare, ma è il dono che Dio fa all’uomo che crede, riceve la vita divina e la onora in una esistenza obbediente a Dio e solidale con gli uomini.

 

 

  

 

Con brama ho bramato

mangiare questa pasqua con voi

Coltivare la memoria

 

Dio ha celebrato la pasqua con Israele.

E’ stato l’evento più importante dell’alleanza.

Israele ne fa memoria ogni anno, come festa del Signore e propria.

Quella memoria ha la funzione di tener viva l’alleanza nel tempo.

Anche nella vita umana la memoria prolunga un evento nel tempo.

Il rito memoriale religioso è perenne, come l’alleanza che rinnova, ed è sacro, capace di comunicare la santità dell’evento originale.

Richiamiamo il rito ebraico per interiorizzarlo: un agnello perfetto immolato al tramonto dall’assemblea, il suo sangue che segna gli stipiti della casa e ogni famiglia riunita a consumarlo. Intanto Dio passa in Egitto e la vita degli egiziani è compromessa a causa della morte dei primogeniti e la vita del popolo ebreo inizia un nuovo futuro saziandosi dell’agnello.

Il popolo ebreo mangia dell’agnello con pane non lievitato ed erbe amare, in piedi, pronto a partire verso la libertà.

La liturgia della memoria è suggestiva ma ancora avvolta del mistero.

La memoria ebraica celebra il primo passaggio di Dio, la primizia della sua pasqua. Infatti rimangono tante domande senza risposta.

Dio passa solo per la morte dei primogeniti egiziani?

Come può l’agnello salvare il popolo di Dio?

Dove è diretto il popolo che parte dopo aver mangiato la pasqua?

Come raggiungerà le promesse fatte da Dio ai padri d’Israele?

 

Gesù ha celebrato la pasqua con i suoi discepoli.

L’unigenito, venuto dal cielo e fatto uomo come noi, con l’offerta del suo corpo compie la volontà di Dio, le promesse di Dio e l’alleanza eterna.

La Chiesa ne fa memoria ogni anno in un rito perenne stabilito da Gesù.

Riunita in assemblea mangia il pane che è corpo di Gesù offerto per essa, beve al calice che è la nuova alleanza nel sangue di Gesù versato per tutti.

In questo modo annuncia la morte del Signore finché egli venga.

Fate questo in memoria di me si riferisce al rito ma anche all’annuncio.

La morte è annunciata quando la Chiesa può dire: vedi, eccola qui.

L’eucaristia è fatta conoscere, quando il mondo vi partecipa.

Ridurre l’eucaristia a una memoria ecclesiale senza lo zelo della missione e della pasqua per il mondo, significa mutilarla e falsificarla.

La Chiesa riunita in assemblea celebra il rito della lavanda dei piedi.

Esso manifesta le dimensioni costitutive della vita cristiana.

Lasciarsi lavare i piedi da Gesù, per essere mondi e aver parte con lui.

Gesù lo esige: Se non ti laverò non avrai parte con me.

Nel rito passa dunque la grazia che costituisce il discepolo di Gesù.

E’ un rito che unisce a Gesù e tramite lui unisce al Padre e ai fratelli.

Così lo Spirito Santo anima la vita dei discepoli e della comunità.

Lavarsi i piedi gli uni gli altri è continuare il gesto salvifico di Gesù nella storia finché egli venga. In questo modo Gesù stesso, che opera attraverso noi, continua a portare la salvezza a coloro che credono e si lasciano lavare. Così lo Spirito Santo divinizza il mondo.

Il rito è stabilito da Gesù stesso, che ha detto: “Vi ho dato, infatti, il segno perché, in virtù di ciò che ho fatto a voi, facciate anche voi” (Gv13,15).

Il rito completa la pasqua che opera nell’eucaristia.

E’ qui significata la grazia donata nel sacramento del diaconato.

Il diacono infatti è segno vivente nella comunità ecclesiale di Gesù servo.

La memoria della pasqua di Gesù riempie il tempo finché egli venga, e assicura, già da due millenni, la continuità della salvezza.

 

Nella memoria della pasqua la Chiesa celebra anche il suo costituirsi in assemblea, sotto la presidenza di chi  rappresenta Gesù pastore. Oggi celebriamo anche l’istituzione del ministero dei vescovi e dei presbiteri.

Nella liturgia la comunità si presenta come è davanti a Dio. Siamo autentici quando celebriamo quello che viviamo e viviamo quello che celebriamo.

Come non ci può essere eucaristia né lavanda dei piedi senza Gesù, così non c’è né liturgia né comunità cristiana senza il pastore.

Dio passa entro la fragilità dei nostri riti, il pane e il vino, e delle nostre persone, l’assemblea e il pastore, per salvare il mondo. 

Se celebriamo bene la memoria della lavanda dei piedi e dell’eucaristia, oggi possiamo esclamare, come Dio, quando ha creato il mondo e la vita: Ed ecco è bello assai!

 

 

 

 

Il venerdì dell’umiltà e della gloria

Chi è veramente Gesù?

 

Il venerdì santo pone una domanda che non possiamo eludere.

Chi è Gesù? Un’omelia è inadeguata a rispondere.

Come dire in poco tempo quello che la parola di Dio dice di Gesù?

D’altra parte questa parola va letta nella Chiesa, perché “la profezia della Scrittura non è di interpretazione privata” (2Pt 1,20).

La profezia dice che il servo suscita stupore. Significa che si rivela diverso da quello che si pensava. Isaia rivela la fede d’Israele nel servo, il Messia atteso come compimento delle promesse.

La passione scritta da Giovanni, esprime la fede della Chiesa in Gesù.

Tre sottolineature ci aiutano a comprendere chi è Gesù alla luce della parola proclamata oggi.

 

Gesù è il credente che compie le Scritture.

E’ uomo ma nella la vita umana vive come una radice in terra arida e un virgulto che cresce, alimentandosi dalla parola di Dio (cf. Is 52,2).

Non insegue le cose umane ma i valori nuovi indicati e creati da Dio.

Egli dice: “Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato” (Gv4,34).

L’uomo dei dolori non sceglie né subisce il dolore ma impara l’obbedienza affrontando la sofferenza, per raggiungere le cose nuove che Dio crea.

La croce è altare dell’esistenza sacerdotale di Gesù, e di ogni esistenza gradita a Dio.

Chi è così impegnato nelle cose del mondo da non avere tempo e energie per Dio, quando conoscerà Gesù, si meraviglierà che la sua grandezza sia la vita sacerdotale.

 

Gesù è colui che raduna attorno alla croce la famiglia dei figli di Dio.

Dice alla madre: Ecco il tuo figlio; Egli però non guarda a sua madre ma alla donna, cioè l’Israele che è rimasta completamente fedele a Dio.

Dice poi al Discepolo: Ecco la tua madre. Egli però non guarda a Giovanni, ma alla Chiesa che ama e che crede in lui.

Gesù vuole che Israele e la Chiesa restino diversi e formino insieme la famiglia di Dio.

La madre di Gesù, accogliendo la sua parola dalla croce, diventa madre di tutto il popolo di Dio fedele che Gesù raduna attorno alla croce.

L’annunciazione che abbiamo affrescata nel trittico mette al centro la croce e questa sera possiamo leggerla in questo modo.

L’angelo è la parola di Dio. Il crocifisso è colui che l’ha compiuta. Maria è primizia del popolo di Dio che crede che la Parola si compirà nella storia.

Il Risorto dona lo Spirito a questo popolo perché diventi la nuova famiglia che cresce nella storia, finché Gesù venga.

La croce è talamo dell’esistenza profetica di Gesù, che cambia la storia.

Chi rimane alla fede nella madre con il bambino, quando conoscerà Gesù, si stupirà di lui, perché la sua santa famiglia è un’altra, quella che lui ha costituito dalla croce.

 

Gesù è Adamo che dalla morte si risveglia a nuova vita.

Dall’acqua e dal sangue che escono dal suo costato Dio fa la Chiesa e la presenta a Gesù, quando si risveglia nella risurrezione.

Gesù la riconosce come ossa delle sue ossa e carne della sua carne e lascia la vita di prima per formare con lei una cosa sola.

La croce è il trono dell’esistenza regale di Gesù, che attira tutti a sé e che raduna tutti nell’unità con lui e con il Padre.

Chi si ferma alla croce come luogo del dolore, quando conoscerà Gesù, si meraviglierà di lui, vedendo che la croce è il suo trono glorioso.

La liturgia questa sera toglie il velo alla croce e ne rivela il mistero.

La croce, come canta l’inno dei vespri, è:

- altare alla sua esistenza sacerdotale, che riconcilia l’umanità con Dio;

- talamo alla sua esistenza profetica, che forma la nuova famiglia di Dio;

- trono alla sua esistenza regale, che annovera attorno a sé tutti i salvati.

Seguendo la liturgia preghiamo per la Chiesa, adoriamo la croce e attingiamo dalla comunione eucaristica l’energia per il glorioso migrare verso la casa del Padre.

 

 

 

   

La notte che salva i credenti in Cristo

La notte risplende come il giorno.

 

Questa liturgia conclude solennemente il triduo pasquale.

- il venerdì, esaltazione di Gesù nella umiliazione e nella gloria;

- il sabato, attesa di Gesù e nostra dell’intervento del Padre della vita;

- la domenica, giorno dell’uomo risorto alla vita eterna e della gioia.

La liturgia è pregna di segni e di parole, che si fanno reciproca omelia.

Insieme fanno ardere il cuore di coloro che credono in Gesù.

 

Li richiamiamo per interiorizzarli e pregarli.

 

Il fuoco, fiamma viva della gloria di Dio, cioè del suo amare, segno di Dio per Mosè sull’Oreb e per il popolo di Dio nel deserto e nella pentecoste.

 

Il cero, frutto del lavoro delle api, prefigurato nella colonna di fuoco dell’esodo e simbolo della nuova luce, accesa in onore di Dio.

Tra le stelle del cielo essa fa risplendere sugli uomini la sua luce serena.

 

L’annuncio della pasqua. Il popolo viene liberato dal sangue dell’agnello. Gesù risorgendo dal sepolcro fa risplendere la notte come il giorno.

 

La celebrazione dei sacramenti che iniziano alla vita cristiana.

 

- il battesimo, nel quale siamo stati sepolti con Gesù nella morte per risuscitare con lui a una vita nuova. Come il Cristo non muore più, così noi siamo viventi per Dio.

 

-  la cresima, nel piano della fede e della grazia, è stretta al battesimo. 

E’ dono dello Spirito per vivere da figli di Dio entro questo mondo che, senza lo Spirito, ci annulla nell’umano.

 

- l’eucaristia è alimento e forza di unità dei cristiani e sacramento del giorno del Signore e della comunità cristiana.

Alleluia. Celebriamo il Signore perché è buono e ha fatto meraviglie.

Restiamo in vita per annunciare le opere del Signore.

 

 

Cristo nostra pasqua è stato sacrificato.

Come reagire alla morte di Gesù?

 

Giovanni racconta la visi­ta di Maria di Magdala, di Pietro e di Giovanni alla tomba di Gesù. Questi discepoli manifestano i vari tipi di reazione di fron­te al mistero della morte di Gesù che ritroviamo anche oggi.

 

Maria di Magdala, trasportata da vero affetto per il suo Maestro, cerca un se­polcro per piangere, qualcosa che le consenta di elaborare il suo lutto.

Ella rappresenta coloro che, di fronte alla morte, custodiscono con cu­ra il ricordo, ma non sono ancora aper­ti alla dimensione della fede cristiana, e in particolare della risurrezione. Anche quando il Signore le appare non lo riconosce ma lo scambia con un giardiniere.

E’ segno evidente che la vita religiosa che si ferma all’esperienza umana e non si lascia coinvolgere dal divino è fragile. La fragilità delle religiosità appare soprattutto di fonte alla morte.

Molti cristiani sono affascinati da Gesù, guardano con interesse al suo inse­gnamento, ma non vanno oltre il legame umano e il ricordo e non incontrano il Viven­te. Se la religione è a dimensione dell’uomo come può far crescere in noi la vita divina?

 

Pietro corre alla tomba, vede il sepolcro vuoto e le bende ma non crede.

Il vangelo non ci dice le ra­gioni di questa sua chiusura. Sono da ricercare nella sua figura religiosa. Pietro aveva negato di conoscere Gesù. Perché? Qualcosa lo aveva paralizzato. Anche qui qualcosa offusca l’amore spontaneo e generoso che nutriva per Gesù.

Permane ancora in lui la convinzione che Gesù ha sbagliato di fronte ai suoi nemici e in particolare nell’accettare la passione? O, all’inverso, è bloccato interiormente dal senso di debolezza e di colpa per il tradimento?

Sappiamo che tutto si scioglie la se­ra della Pasqua, quando il Risorto appare ai discepoli e dona loro lo Spirito, il suo perdo­no e la sua pace e quando Pietro sarà confortato da una apparizione personale di Gesù.

Pietro rappresenta coloro che hanno fatto una scelta religiosa chiara ma misurano il loro cammino alla luce del progetto che hanno maturato e vedono i risulta­ti deludenti come segni evidenti di sconfitta.

Non mettono in conto il modo di pensare e di agire di Dio ma sono inclini a  guardare a sé e confidano sulla propria morale e sulle proprie capacità e quindi si scoraggiano quando i conti non tornano.

Pietro, persona di slancio nella vita appare senza via durante e dopo la passione; rappresenta i cristiani che sono stati perdonati ma non si sono lasciati rigenerare e mancano di vitalità e non valorizzano la grazia.

 

Giovanni, il discepolo che Gesù amava è immagine dei discepoli fedeli.

Egli ha avuto un significato speciale nel vangelo di Giovanni dall’ultima cena, quando aveva appoggiato la testa sul petto di Gesù e aveva assorbito qualcosa del segreto del suo cuore, della sua dedizione assolu­ta a Dio e agli uomini, del suo vivere per il prossimo.

E’ il discepolo che si è lasciato amare e rigenerare e non ha rinnegato il Mae­stro. Egli corre e giun­ge prima di Pietro per la sua giovinezza ed anche perché conosce Gesù in modo positivo.

Pietro e l’altro discepolo entrano nel sepolcro e vedono che è vuoto, che il lenzuolo è per terra e il sudario piegato a parte;  vedono le stesse cose ma reagiscono in modo diverso.

Pietro rimane sulle sue; il discepolo amato da Gesù vede e crede.

Comprendiamo che egli entra nella tomba e vede ricco dell’amore di Gesù e per Gesù. Questo è il cristiano: il discepolo che vive dell’amore di Gesù e per suo amore. Quando i se­gni dimostrano che il corpo di Gesù non è stato trafugato, egli si apre alla fe­de, intuisce la novità di Dio, vede qualcosa che supera ogni attesa e immaginazione.

Non è ancora la fede pasquale né la fede piena espressa dopo che dal costato di Gesù uscì sangue ed acqua.

Il verbo greco qui va tradotto: “cominciò a credere”.

Non ha ancora compreso la vita e la morte di Gesù alla luce delle Scritture; intuisce pe­rò, grazie al suo legame particolare con Gesù, che in quel sepolcro si manife­stava il mistero di Dio.

Egli rap­presenta i disce­poli che si affidano a Gesù, come egli si affida al Padre, e si lasciano condurre dove egli vuole, anche nelle prove della fede.

La Parola ci interpella. Come andiamo verso il sepolcro di Gesù?

Evidentemente non basta andarci. Forse ci riconosciamo un po’ in tutti tre i discepoli del vangelo; forse uno prevale in noi.

In questa pasqua avvenga di noi quello che scrive S. Paolo:

Voi siete morti al mondo; ormai la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio; attendete senza paura di essere manifestati con lui nella gloria (Col 3,3-4)