Omelie del tempo ordinario
1
(2007)
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a cura di
don Carlo Salvador
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14.01.07 ORDINARIO
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21.01.07 ORDINARIO
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28.01.07 ORDINARIO
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04.02.07 ORDINARIO
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11.02.07 ORDINARIO
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18.02.07 ORDINARIO
7 C 2007
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ORDINARIO
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La
liturgia ci propone la terza epifania di Gesù, dopo quella ai Magi
e quella al Giordano.
Gesù
manifesta la sua gloria, cioè rivela lui stesso la sua identità,
nell’occasione di uno sposalizio a Cana. L’evento richiede
attenzione, perché i segni, come le parabole, sono semplici ma
manifestano l’insieme del vangelo. La traduzione non aiuta: a
volte basta una parola o una punteggiatura non pertinente per
cambiare il senso del testo. Gesù dà l’inizio dei segni. Non si
tratta solo del primo segno ma della sorgente di tutti i segni.
o
Il dialogo fra Maria e Gesù. Maria dice: Vino non
hanno. Maria esprime sofferenza, perché, nella cultura di
allora, la mancanza di vino nelle nozze significava che la festa era
finita, che il matrimonio iniziava male. E Gesù pone due domande: Cosa
a me e a te? Nella frase non c’è il verbo, bisogna trovarlo
nel contesto del racconto. Traduciamo: che cosa domanda a me e a te
questo fatta che manca il vino? Non è assolutamente ancora
venuta la mia ora? L’ora di Gesù è decisa dal Padre: non può
essere proprio questa? Viene in mente il dialogo tra Maria e Gesù
dodicenne al tempio nel vangelo di Luca. Maria esprime sofferenza: tuo
padre ed io angosciati ti cercavamo. Gesù risponde con due
domande: perché mi cercavate? Non sapevate che io devo stare nelle
cose del Padre mio? Si arriva alla stessa conclusione: questo è un
evento voluto dal Padre e Maria e Gesù obbediscono a lui. Gesù
indica a Maria che si tratta della volontà del Padre.
L’ordine
ai servi è dato da Maria che era di famiglia mentre Gesù era solo
un invitato.
Gesù
decide autonomamente di compiere l’evento che manifesta la sua
gloria.
Non
è Maria che ottiene da Gesù ma il Padre che rivela il suo disegno.
o
Le giare in pietra per la purificazione ricordano
l’usanza degli ebrei di lavarsi prima di mangiare e quella
cristiana di togliere il peccato prima della comunione. Il battesimo
suggella la conversione: cambiare vita e, in un adulto, cambiare
mentalità. L’acqua cambiata in vino indica il cambiamento
radicale che i sacramenti provocano
nella vita.
Nel
battesimo la vita umana diventa divina; nell’eucaristia il pane e
vino diventano presenza di Cristo che nutre il suo corpo mistico che
è
la Chiesa.
Alla
luce di questo evento il Padre rivela l’ora finale, di cui il
cambiamento dell’acqua in vino è segno, l’umiliazione di Gesù
da parte degli uomini e la sua glorificazione da Dio. Nella pasqua
la sofferenza indica non il finire dell’alleanza ma la
trasformazione che rende l’alleanza umana-divina diventi eterna e
una cosa molto bella, una festa eterna.
Dio
indica a Gesù che cosa deve fare nella missione che sta iniziando e
dice a noi che cosa dobbiamo attenderci da Gesù. Come la sposa
attendiamo il completamento..
o
Il racconto, come rivela che Gesù è lo sposo e che
la Chiesa
è la sposa?
Lo
sposo è colui che assicura il vino sufficiente per la festa di
tutti. E Gesù, a differenza dello sposo terreno, lo garantisce e lo
conserva buono fino alla fine, salva il matrimonio.
La
festa per il matrimonio di Gesù con
la Chiesa
sarà eterna e sarà molto bella.
La
sposa è costituita dal primo gruppo dei discepoli invitati a nozze
con Gesù e riuniti intorno a lui. L’evangelista scrive che i
discepoli credono in Gesù. Significa quello che è avvenuto: che
stanno con lui, gli consacrano la loro vita, formano una sola carne
con lui.
In
questo racconto i due sposi terreni non sono neppure nominati: la
festa del loro matrimonio è destinata a fermarsi, non viene detto
neppure come e quando si fermerà.
In
effetti il loro
matrimonio è una realtà
terrena. Non è di essi che il racconto parla.
o
Dio manifesta Gesù. Ci domandiamo: Chi è Gesù per
noi? Come interpretare l’annuncio del vangelo e i segni che
compie? In particolare cosa pensare di fronte alla sua umiliazione,
passione e morte? Vanno
interpretate. Sposarsi ha un grosso costo: il costo della
trasformazione. Gli sposi interpretano la vita partendo
dall’amore.
Vale
la pena di pagare il costo, perdere la vita per acquistarla nuova.
La Chiesa
interpreta Cristo come lo sposo: con lui è possibile l’alleanza,
il salvare la vita. Due sposi si conoscono partendo dall’amore e
nella unità della vita. Gesù si manifesta a noi come nostro sposo;
in lui è possibile l’alleanza, il salvare la vita.
Preghiamo
per riuscire ad amare Gesù come la sposa ama lo sposo.
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3 C
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Oggi
la liturgia ci offre la pagina di apertura del vangelo di Luca. E’
un’altra epifania di
Gesù, un evento in cui Dio manifesta a Gesù, e Gesù manifesta a
noi, chi è il Messia.
Siamo
in un sabato, giorno del Signore e della comunità. Come viveva Gesù,
prima di manifestarsi come il Messia, la giornata del sabato? Gesù
è fedele ad alcune cose.
Entra
nella sinagoga. La sinagoga è l’edificio dove il popolo si
raduna nel giorno del Signore per ascoltare la parola di Dio, per
pregare, per trattare i problemi della comunità. Gesù è
praticante, assiduo alla vita della sinagoga. Il vangelo dice: come
il suo solito.
Si
reca nella sinagoga del paese in cui è stato allevato. Ascolta
e loda Dio con la gente con cui vive, dove è conosciuto. Non
sceglie di andare dove si trova meglio.
Si
alzò a leggere e gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Gesù
non si mette solitario in disparte, lasciando che facciano gli altri
ma agisce da corresponsabile della parola, che vuole conoscere,
condividere e praticare; si offre di fare il lettore, un ministero
liturgico. Chi leggeva la parola la presentava anche al popolo. Ne
abbiamo un esempio nella prima lettura che riferisce quanto era
avvenuto al ritorno del popolo dall’esilio di Babilonia.
Si
ricostruiscono le mura di Gerusalemme e la città. Si celebra una
solenne liturgia.
Il
sacerdote Esdra apre il Pentateuco, i cinque libri, e legge la
parola dall’aurora fino a mezzogiorno. I leviti la spiegano al
popolo, che partecipa commosso. Il convenire del popolo nella casa
dell’ascolto e della preghiera è fondamentale per mantenersi
fedeli.
A
mezzogiorno si fa un banchetto solenne perché tutto il popolo
festeggi il Signore.
E’
il percorso che anche noi facciamo nella festa dell’appartenenza.
Il momento celebrativo è l’anima della festa, che poi sfocia
anche nella condivisione del pranzo.
Gesù
presenta il brano di Isaia che ha letto non con una catechesi ma
annuncia una cosa che Dio sta per fare in quel sabato, in quelli che
sono presenti nella sinagoga. La parola era stata detta da Isaia
tanto tempo prima ma Dio la dice per questo popolo in questo sabato.
Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi avete udita con i
vostri orecchi.
C’è
un insegnamento per noi: questa cadenza del sabato, il partecipare
in modo attivo all’ascolto e alla preghiera e alle decisioni della
comunità, il giorno consacrato al Signore perché Dio e il popolo
possano parlarsi e crescere nell’alleanza sono percorsi necessari.
Oggi
pomeriggio faremo un confronto tra consiglio pastorale e comunità,
perché la parola e la
lode siano non solo ascoltate e celebrate ma anche condivise e perché
conoscendo meglio il Signore e conoscendoci meglio tra noi impariamo
a benedire e a non maledire e a partecipare alle sofferenze e gioie
del cammino cristiano comunitario.
La
parola annuncia la pentecoste su Gesù. Lo Spirito del Signore è
sopra di Gesù e per questo Dio consacra Gesù con l’unzione e lo
manda ad annunciare il vangelo. Lo Spirito santo, l’amore di
Dio, fa Gesù uomo pastore divino conferendogli la consacrazione.
Per
questo Gesù può compiere la sua missione con la potenza di Dio. La
sua è una missione che lo porta in croce, è l’annuncio amato e
tradito dagli uomini di Chiesa.
Annunciare
ai poveri il lieto annuncio. Oggi i poveri ascoltano dalla
chiesa un messaggio che porta loro gioia? Annunciare ai
prigionieri la liberazione. Oggi chi è prigioniero di
situazioni difficili da vivere sente un messaggio che lo libera o
che lo condanna?
Annunciare
agli oppressi la libertà. Oggi gli oppressi sono liberati o
l’oppressione economica, politica e religiosa di milioni di
persone continua per salvare i privilegi?
Gesù è mandato a predicare un anno di grazia
del Signore. Isaia pone l’anno di grazia all’ultimo posto.
Per vivere un tempo/un giubileo in cui rigenerarsi, i cristiani
devono prima credere alla bella notizia e vedere la gioia dei poveri
e degli oppressi liberati.
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4 C
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Siamo
alla pagina di apertura del vangelo di Luca che abbiamo iniziato
domenica.
Gesù
si è presentato alla sua comunità come il profeta Isaia aveva
presentato se stesso.
Il
profeta è consacrato per annunciare la liberazione e l’anno di
grazia del Signore.
Nel
testo di Isaia il tempo di grazia viene detto un giorno di
vendetta per il nostro Dio.
L’annuncio
che il profeta deve portare è in contrasto con la situazione che
l’uomo vive nel suo tempo: è la vendetta del Signore rispetto
alla mentalità e alla condotta dell’uomo. Anche il profeta
Geremia presenta così la sua vocazione, nel brano che abbiamo
ascoltato come prima lettura. Alzati, gli dice Dio, e dici
a tutti, tutto quello che io ti dirò. Ti faccio una fortezza, un
muro di bronzo, contro tutti. Ti muoveranno guerre ma io sono con te.
Il
profeta è mandato contro il mondo; perciò non è accetto nel suo
tempo e nel suo paese.
Misurare
l’opera del profeta con il gradimento che suscita nella
maggioranza è sbagliato, non in via di principio ma perché, in
realtà, il mondo non vive secondo la volontà di Dio.
I
compaesani di Gesù riconoscono che le sue erano parole di grazia e
si meravigliano.
Gesù,
che conosce i loro cuori, li interpreta così:
siamo fortunati ad avere in casa uno che fa prodigi! Un fatto
analogo succederà dopo la moltiplicazione dei pani: vengono a
prendere Gesù per farlo re, perché è bello averlo re. E Gesù
reagisce ritirandosi da loro.
Gesù
ricorda che il profeta è mandato non per compiere i segni che
attirano consensi ma i segni che presentano il regno di Dio, che è
sempre in contrapposizione con il mondo.
Liberare
i poveri, i prigionieri e gli oppressi, e annunciare l’anno di
grazia del Signore suscita opposizioni infinite, perché scardina
privilegi che la gente ritiene diritti acquisiti. Libertà e diritti
civili sono molto importanti per la gente di oggi, ma spesso sono
opposti al bene comune e alla volontà del Dio che vuole salvare
l’umanità da questo mondo.
Il
vangelo chiede la conversione. Il punto debole è oggi la gioventù
che assorbe le idee del mondo come valori e poi si vede smentita
dalla vita. Pensiamo ai fatti di bullismo e di esibizionismo
sessuale e a altre negatività che i mezzi di comunicazione ci
propinano.
Ma
la tentazione prende tutti. Non sono gli adulti i responsabili, se
il mondo è così?
Il
vangelo si scontra sempre con il mondo e colui che ha potere sul
mondo: il tentatore.
Gesù
cita le Scritture per dire che Dio non usa preferenze ma bada solo
al suo disegno di salvezza: c’erano molte vedove in Israele ma
Elia fu mandato a salvarne una sola a Sidone, fuori Israele;
c’erano molti lebbrosi al tempo di Eliseo ma fu risanato solo
Naaman, che era siriano. Dio non bada neanche alla Chiesa, se
contrasta il suo disegno. Occorre essere vigili, perché la sapienza
di Dio è diversa dalla sapienza dell’uomo.
Nella
religione si possono creare false sicurezze, idee sbagliate e
privilegi ingiustificati. Non possiamo dire né che nella Chiesa
tutto è giusto né che in essa tutto è sbagliato.
La Chiesa
è composta da persone consacrate da Dio, figli o ministri di Dio,
ma che restano persone umane con i loro limiti. Questo è normale ma
Dio ci dà nel vangelo il criterio per misurare se le cose sono
giuste. Se un vescovo sforna monsignori non vuol dire che questo è
bene e che i preti devono accettare e che i cristiani devono fare
festa.
Il
vangelo dice chiaramente che Gesù ha insegnato che i titoli
onorifici sono un falso.
Luca,
mettendo l’evento di Nazaret ad apertura del vangelo, dice che è
inutile proseguire nella lettura del vangelo se riduciamo la
liberazione di poveri, oppressi e prigionieri al perdono dei peccati
e trascuriamo la giustizia, se riduciamo l’anno di grazia alle
celebrazioni e alle indulgenze e trascuriamo la liberazione umana,
se affermiamo la nostra libertà calpestando la dignità degli
altri, se giustifichiamo
il nostro tempo e non ci accorgiamo che siamo tutti sotto
l’influenza di Dio ma anche sotto quella del
diavolo.
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Gesù
inizia la predicazione del vangelo nelle sinagoghe di Cafarnao e di
Nazaret, nei luoghi riconosciuti della religione ebraica. Suscita
entusiasmi ma anche perplessità e perfino rifiuto. La pagina del
vangelo che abbiamo ascoltato dice che Gesù, lasciate le sinagoghe,
inizia a parlare sulla riva del mare di Galilea. Le folle gli fanno
ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, senza pregiudizi verso
di lui. Gesù non ha con sé nessun libro della Scrittura, ma parla
con autorità di cose che conosce: è la parola del Padre.
Parla
dalla barca scostata dalla riva e quindi parla dal mare. Il mare è
simbolo di fecondità, come nella pesca abbondante, e di pericoli,
come nella tempesta. Il mare mette in comunicazione paesi diversi se
si è disposti ad andare incontro alla cultura e alla vita della
gente. Il mare suggerisce l’idea di movimento, di attraversamento,
di bagaglio essenziale, di un lavoro lungo tutta la notte e quindi
di vigilanza e di operosità.
E’
un ritorno alle origini, quando non c’erano né sinagoghe ne
templi e la parola di Dio risuonava nella creazione e nella vita di
tutti i giorni. Gesù dunque prende l’avvio dalla sinagoga ma per
navigare al largo, verso orizzonti più ampi. Questa parola è
attuale.
Gesù
è nella Chiesa per la salvezza di coloro che hanno creduto in lui e
sono stati battezzati ma è anche missionario in tutti gli spazi e i
tempi abitati dall’uomo, perché offre la sua parola e la sua vita
per salvare tutti. Gesù abita
la Chiesa
e l’umanità intera.
Il
vangelo racconta due pesche che avvengono nello stesso mare, nella
notte e il mattino seguente: una immediata e abbondante nel tempo
meno opportuno e un’altra infruttuosa nonostante il tempo
favorevole, la perizia dei pescatori e il loro lavoro lungo la
notte.
Il
confronto dice con chiarezza la differenza. Pietro la nota, si getta
alle ginocchia di Gesù e lo prega di stare lontano da lui, come il
santo di Dio sta lontano dal peccatore.
La
prima e la seconda lettura ci danno un insegnamento analogo in un
contesto diverso. Isaia racconta una sua visione: vede Dio sul trono
e lo chiama re e signore, sente anche il canto dei serafini: santo,
santo, santo è il Signore. Di fronte a questa visione si sente
un uomo perduto, parte di un popolo dalle labbra impure. Ma un
serafino purifica le sue labbra con un carbone ardente dall’altare
e Isaia, una volta purificato, può fare il profeta.
S.
Paolo scrive ai Corinti che sente tutta la sua indegnità di fronte
alla chiamata e pensa di essere come un aborto di fronte agli altri
apostoli che hanno goduto di una gestazione lunga alla scuola di Gesù.
Egli è divenuto apostolo per grazia ma ha faticato più degli altri
nella missione, anzi è stata la grazia di Dio a faticare in lui.
Questa grazia non è stata vana. Infatti Paolo è un grande
apostolo; senza di lui
la Chiesa
non sarebbe quello che è.
Tutte
tre e letture ci danno un insegnamento prezioso: i discepoli di Gesù,
divenuti pescatori di uomini, possono contare non sulle condizioni
favorevoli ma sulla potenza di Dio. La prima qualità di chiunque
svolge un compito pastorale è l’umiltà, il riconoscersi
peccatori di fronte a Dio, che è il primo e più importante
operatore della missione.
Impariamo
dunque che non dobbiamo insuperbire quando le cose vanno bene né
scoraggiarci o rivendicare qualcosa quando abbiamo lavorato bene e
le cose non vanno. Rimettiamo tutto a Dio che è più importante di
noi e ci fa uscire migliori anche dalle nostre crisi. Dio vigila sul
suo regno che cresce: a noi è chiesto di obbedire a lui, che guida
la Chiesa
per mezzo dei pastori. Oggi, valorizziamo il canto del Santo,
all’apertura della liturgia eucaristica. Appartiene
all’assemblea, che lo canta unendosi all’assemblea degli angeli
e dei santi. Esso esprime la comunione profonda fra
la Chiesa
della terra e quella del cielo. I cieli e la terra sono pieni
della gloria di Dio. Non cediamo allo scoraggiamento ma teniamo
fisso lo sguardo a Dio, alla sua gloria che si espande.
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Le
beatitudini ci sono tramandate in due versioni diverse. Sono
9 in
Matteo e
4 in
Luca.
Matteo
le ambienta sul monte; egli si rivolge ai cristiani di provenienza
ebraica e ad essi la montagna evoca il Sinai. In questo modo Matteo
presenta le beatitudini come
la legge della nuova alleanza. I cristiani non camminano più alla
luce dei comandamenti ma alla luce delle beatitudini. Luca le
ambienta nella pianura. Egli si rivolge a destinatari non ebrei e
scrive che beati possono essere tutti, anche gli abitanti di Tiro e
Sidone, i pagani.
La
pianura è accessibile ai quattro orizzonti e quindi a tutti. I
vangeli comunicano il messaggio nel modo più adatto per i
destinatari. Le parole di Gesù possono avere una collocazione
diversa per parlare all’uomo nelle condizioni concrete della sua
vita.
Anche
noi siamo chiamati ad annunciare le beatitudini in modo che siano un
messaggio per noi, nella nostra situazione storica e per gli uomini
del nostro tempo.
Luca
presenta la salvezza partendo non dalla parola dell’AT, che i
pagani non conoscono, ma dalle situazioni esistenziali di giustizia
o di ingiustizia, che tutti esperimentano.
Luca
parla alla gente digiuna della parola di Dio ma sensibile ai
problemi della giustizia.
Matteo
in polemica con il formalismo giudaico proclama beati i poveri in
spirito, precisando che la povertà è sì mancanza dei beni
necessari alla vita ma è anche l’atteggiamento interiore che
assumiamo rispetto ai beni. Tutti possono essere avidi.
Luca
porta la parola di Gesù alla radice dell’esistenza, come aveva
visto fare Paolo, che aveva accompagnato nel ministero, e come
scrive Giacomo nel capitolo 5: ora voi ricchi piangete e gridate
per le sciagure che vi sovrastano. Certe fortune economiche
possono essere disgrazie spirituali, tentazioni a chiudere il cuore
a Dio e al prossimo.
Luca
non riporta beati i puri di cuore, perché Matteo si
rivolgeva ai farisei che riducevano il rapporto con Dio a purità
legale mentre il cuore era lontano da Dio.
Le
beatitudini realizzano la profezia di Is 61: Il Signore mi ha
mandato a portare il lieto annuncio ai poveri, a fasciare le piaghe
dei cuori spezzati, per consolare tutti gli afflitti, per dare loro
una corona invece che la cenere. Luca aveva anticipato questo
messaggio nel Magnificat: Dio ha rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha
rimandato i ricchi a mani vuote. Oggi il calendario riporta la
memoria della beata Vergine di Lourdes: vale la pena di ricordare
che non possiamo ridurre Maria alle apparizioni e alle guarigioni e
alla mamma disponibile a tutti ma dobbiamo vedere come lei incarna
le beatitudini. Maria nella vita sociale sta da una parte precisa,
quella fatta propria da Gesù: i poveri, i prigionieri e gli
oppressi.
Ciò
è evidente se consideriamo anche i quattro lamenti paralleli alle
quattro beatitudini: guai! La parola greca uài significa guaia!
ma è anche espressione dei lamenti funebri.
Non
sarebbe tanto una minaccia ma un grido di dolore su quanti operano
l’ingiustizia: i ricchi, i sazi, quelli che ridono, quelli di cui
tutti gli uomini parlano bene. Essi sono i morti su cui fare il
lamento funebre. Veramente la nostra Chiesa oggi è altra da Gesù.
Colleghiamo
il brano evangelico con l’AT e capiremo che è il messaggio unico
di Dio.
Il
profeta Geremia annuncia che Dio dice male di coloro che confidano
nella carne e allontanano il loro cuore da lui. Dice che dimoreranno
in una terra arida e salata dove nessuno può vivere. Dio dice bene
invece di chi pone la sua fiducia in lui. Dice che saranno sempre
vigorosi e fecondi come gli alberi che stendono le radici verso
l’acqua.
Il
salmo responsoriale di solito trasforma l’ascolto della prima
lettura in preghiera.
Oggi
possiamo pregarlo anche dopo aver ascoltato le beatitudini di Luca.
Chiediamo di stare accanto al Gesù delle
beatitudini come l’albero accanto all’acqua.
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ORDINARIO
7 C
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Domenica
scorsa abbiamo proclamato e meditato le beatitudini scritte da Luca.
La
pagina odierna è come un’eco a quel testo. Annuncia che le
beatitudini portano ad un stile di vita che oltrepassa la giustizia
umana e quindi domandano un cambiamento
grande, che va preso sul serio. I cristiani restano tuttora
ancorati ai comandamenti.
I
comandamenti non hanno niente di trascendente ma sono facili, perché
domandano la fede nel Dio unico, la santificazione della festa, cose
comuni alle religioni, e le norme di comportamento dettate da una
retta coscienza e dalla morale umana. Sono cose che tutti gli uomini
retti e religiosi osservano. Gli
ebrei li mettono a base dei loro comportamenti, perché li
assumono come segni dell’obbedienza a Dio e della fedeltà
all’alleanza con lui. Un discorso importante nell’AT che non
conosce ancora il vangelo. Le beatitudini invece impegnano a
scegliere la vita dei poveri, degli affamati, di coloro che piangono
e di coloro che sono odiati. Per noi occidentali si tratta di un
cambiamento radicale di mentalità e di vita. Chi lo fa fare? Gesù,
il quale dice che sono costoro, o quelli che sono come loro, che
possiedono il regno dei cieli. Chi vuole entrare nel regno dei cieli
sceglie questo stile di vita. Il regno dei cieli è quello che Dio dà,
è un regno la cui grandezza non è misurata con la mentalità
umana, perché non è grandezza umana ma divina.
Questo
è possibile se c’è di mezzo Dio e la sua vita. Perdiamo
l’umano e acquistiamo il divino. Gesù ha insegnato con chiarezza
che bisogna perdere la vita per ritrovarla, quando la vita umana sarà
esaurita. Domandiamoci in sincerità: Chi prende sul serio le
beatitudini? Dovremo fare
l’esame di coscienza sullo stile evangelico della nostra vita e
partire da qui per convertirci, chiedere perdono, e trovare perdono
e guarigione.
Bisogna
fare il vuoto in noi perché Dio ci possa riempire. Il catechismo
della Chiesa cattolica, scritto dopo il Concilio, continua a fondare
la morale sui comandamenti.
Le
beatitudini sono riservate a alcuni pochi, che come Francesco
d’Assisi, si riferiscono al vangelo sine glossa, alla lettera. Le
beatitudini le abbiamo messe da parte o sono diventate sopramobili o
opere d’arte, buone per abbellire ma non per nutrire.
Le
beatitudini fondano uno stile di vita che va oltre la legge. Gesù
oggi ci esorta ad amare i nemici, dicendo apertamente che è facile
amare quelli che ci amano. Anche i peccatori amano così. Nessun
comandamento ordina di amare i nemici. Anzi in Israele vigeva la
legge del taglione: rispondere con la stessa moneta e la stessa
violenza..
Ci
sono però anche testimonianze di perdono ai nemici, come quella
riportata nella prima lettura. Davide non uccide Saul, perché è il
consacrato del Signore. Sono sempre motivazioni più alte dei
comandamenti che spingono ad amare il nemico. Anche Gesù invita ad
essere figli del padre celeste che è misericordioso e benevolo
verso gli ingrati e i malvagi; ci
invita anche a stare attenti perché saremo misurati con la
misura con cui misuriamo
gli altri. E’ la misericordia che dà la misura della nostra
figliolanza divina.
Il
fondamento teologico della misericordia è Gesù stesso, figlio che
ama come il Padre.
Noi
siamo figli di Dio in Cristo, una persona che diventa parte della
nostra vita, e conduce a fare dei figli di Dio parte della nostra
vita, come in ogni rapporto di amore.
Rileggiamo
con attenzione la pagina del vangelo che abbiamo ascoltato.
E’
un annuncio facile, pieno di esempi pratici, che possiamo capire.
Preghiamo
perché Dio ci dia la forza di vivere così.
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