Omelie del tempo ordinario
2
a cura di
don Carlo Salvador
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SOLENNITA’
DEL CORPO E SANGUE DI CRISTO
* Omelia
tenuta dal diacono Elio Tardivo *
La
solennità del Corpo e Sangue di Cristo è una festa che
nasce dalla devozione popolare per l’eucaristia e come tante
devozioni popolari, ha avuto il limite di valorizzare un solo
aspetto del sacramento: la presenza
reale di Gesù nel pane consacrato. Il papa Urbano IV l’ha
introdotta nel 1264 come risposta a dottrine
ereticali che negavano la presenza reale di Gesù
nell’Eucaristia. Ma la riforma del Concilio Vaticano II ha dato
alla festa
un significato più completo, dotando la liturgia di nuovi
testi e nuove
preghiere e aggiungendo al titolo la parola Sangue .
Prima si chiamava: Corpus Domini (Corpo del Signore). Oggi si
chiama solennità del Corpo e Sangue di Cristo. Il
riferimento al sangue sposta la nostra attenzione sul mistero
pasquale considerato nella sua interezza come
passione, morte e risurrezione di Gesù.
Le
letture bibliche e le preghiere della liturgia odierna ci educano a
comprendere l’Eucaristia come mistero della Pasqua. I Padri della
Chiesa, consideravano la Pasqua festa della Eucaristia e
l’Eucaristia celebrazione della passione, della morte e della
risurrezione di Gesù.
Il
discorso di Gesù che abbiamo ascoltato nel Vangelo di Giovanni, ci
suggerisce alcune riflessioni.
1.
Di fronte alle folle che lo ascoltavano, Gesù
afferma: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo». Egli è
il dono del Padre fatto agli uomini. E’ l’inviato a portare la
salvezza e la vita a noi che siamo destinati alla morte. Gesù usa
la metafora del cibo, perché il cibo serve a sviluppare e a far
crescere la vita e per questo deve essere mangiato. Dunque Gesù è
pane da mangiare destinato a coloro che hanno ricevuto
dal battesimo la vita divina. Durante il digiuno nel deserto,
rispondendo al diavolo che lo sollecitava a trasformare le pietre in
pane per sfamarsi, aveva detto: “non di solo pane vive
l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” Mt 4,4
cfr. Deut 8,3. La Parola di Dio è nutrimento. Egli in
persona è parola di Dio che si è fatta carne: “e il Verbo si
fece carne e dimorò fra noi” cfr. Gv 1,14. Questo
annuncio, che Giovanni fa nel prologo trova riscontro nel discorso
odierno: «Il pane che io darò è la mia carne per la vita del
mondo».
La
metafora del cibo indica dunque una stretta relazione. Gesù ha
scelto la relazione e la comunione totale con l’uomo.
«Carne» e «sangue» significano la sua condizione umana
che lo porta a condividere il dolore e la morte, ma che diventa
sorgente di vita per il mondo, a patto che venga mangiata, cioè che
venga accolta.
2.
Il dono di Dio nella persona del Figlio va accolto. Mangiare e
bere significa aderire senza riserve a Cristo che si è donato per
la salvezza del mondo. I giudei si rifiutano di credere che la
salvezza possa venire da un uomo che dona se stesso e che la loro
vita eterna possa dipendere da quel Gesù. Essi rifiutano
l’incarnazione e negano che la morte in croce sia sorgente di vita
per tutti gli uomini. Sanno che la salvezza viene da Dio, ma non
riconoscono Gesù come l’inviato da Dio.
I
credenti che «mangiano e bevono» la carne e il sangue di Gesù
avranno la sua stessa vita. “Coloro che credono nel suo nome,
non da sangue, né da volere di carne, ma da Dio furono generati”
Gv.1,12-13.
Mangiare
la carne e bere il sangue stabilisce una relazione profonda, che non
è di fusione, come può lasciar supporre il cibo assimilato dal
corpo, ma è di coabitazione, di dimora reciproca, di comunione.
E’ una precisazione che fa Gesù stesso: “Chi mangia la mia
carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui”.
Appropriarsi dell’insegnamento di Gesù, significa entrare
nell’amicizia divina. Dice S. Paolo: “non sono più io che
vivo, ma Cristo vive in me”.
Questo
legame reciproco tra il Figlio di Dio e il credente è possibile
grazie alla stretta relazione che il Figlio ha con il Padre. Il
Padre è colui che genera la vita. Il Padre fa vivere il Figlio e lo
invia, il Figlio fa vivere il credente che si nutre di lui.
“Come mi ha mandato il Padre, che è il vivente e io vivo grazie
al Padre, così anche colui che si ciba di me vivrà grazie a me”.
Ogni
vita può esistere solo nella comunione con il Padre. Il credente è
messo in comunione con il Padre dal Figlio. Gesù insiste perché
crediamo in lui. Il frutto di questa fede è la relazione
trinitaria.
3.
La comunità cristiana che celebra la liturgia pasquale non
separa la presenza del Risorto dal ricordo della sua morte.
L’eucaristia (rendimento di grazie) è presenza di Gesù che fa
dono di se stesso perché i discepoli siano partecipi della sua
stessa vita. Con l’atto simbolico di condividere il pane e il
calice, l’assemblea esprime la comunione con Colui che vive
mediante il Padre, in reciproca coabitazione.
Paolo,
nella seconda lettura, ci ricorda che la comunione con il corpo di
Cristo genera la comunione ecclesiale. Pur essendo molti, siamo un
corpo solo, perché partecipiamo dell’unico pane.
Nel
libro della Didaché c’è questa preghiera che possiamo
fare nostra: «Come i grani di frumento che sono germinati
sparsi sulle colline, raccolti e fusi insieme, hanno fatto un solo
pane, così, o Signore, fa una cosa sola di tutta la tua Chiesa, che
è sparsa su tutta la terra; e come questo vino risulta dagli acini
dell’uva che erano molti ed erano diffusi per le vigne coltivate
di questa terra e hanno fatto un solo prodotto, così, o Signore, fa
che nel tuo sangue la tua Chiesa si senta unita e nutrita di uno
stesso alimento».
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TEMPO
ORDINARIO 10
A 2005
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La
parola proclamata oggi ci parla dell’amore. Affrettiamoci a
conoscere il Signore.
Osea
dice che il popolo dimostra desiderio di conoscere Dio, convinto che
egli verrà.
Come
viene l’aurora ad iniziare il giorno, come viene la pioggia a
fecondare la terra così Dio verrà per noi e sarà luce al nostro
cammino e darà fecondità alla nostra vita.
Anche
noi ci siamo affrettati a venire, nella comunità riunita nel giorno
del Signore, spinti dalla stessa convinzione: Dio viene in mezzo a
noi, nella parola e nell’eucaristia.
Dio
però non si dimostra entusiasta di questa decisione del suo popolo,
perché vede che è superficiale. L’amore del popolo non è
profondo, costante e fedele com’è l’amore di Dio.
Il
vangelo ci aiuta a capire questo messaggio, perché ci presenta come
ama Gesù.
o
Egli chiama un pubblicano a seguirlo per diventare
apostolo.
Questo
scandalizza i farisei, che erano convinti che un buon ebreo non
poteva fare il mestiere di esattore delle tasse, perché richiedeva
la collaborazione con lo straniero e perché era un mestiere furbo,
essendo facile maggiorare i tributi a proprio vantaggio.
o
Gesù giace a mensa con i pubblicani e i peccatori.
Altro scandalo per i farisei.
Mettersi
a mensa dimostra amicizia
e farlo con i peccatori viola la purità rituale.
Il
nome “farisei” significa “separati”; essi infatti non si
univano mai con i peccatori.
Gesù
fa scelte opposte ai farisei: si prende cura dei peccatori, come il
medico si prende cura dei malati, e li chiama a partecipare al regno
di Dio. Chi fra loro è fedele a Dio?
Gesù
si appella al profeta Osea che scrive: voglio l’amore e non il
sacrificio, la conoscenza di Dio più che gli olocausti. Che cosa
significa? Dio è innanzi tutto amore.
Il
suo amore non può essere che misericordia, perché il popolo è
peccatore.
Gesù
manifesta la misericordia di Dio proprio chiamando i peccatori a
seguirlo.
Una
domanda per noi: come esprimere la misericordia oggi? Come evitare
di vivere separati dai peccatori e nello steso tempo evitare di
farsi solidali con il peccato?
Gesù
sta con i peccatori ma non è solidale con i loro peccati; egli li
chiama a farsi solidali con lui, ad entrare nel regno dei cieli. Gesù
si incarna non per essere uomo tra gli uomini ma perché gli uomini
entrino nel regno di Dio.
Essere
solidali senza offrire loro la possibilità di salvarsi è tradire
il vangelo.
Qui
c’è un richiamo attuale. La maggioranza dei cristiani adotta la
mentalità e i costumi del mondo d’oggi, tradisce i valori
sacrosanti indicati da Dio e si dichiara cristiana.
In
questo modo, la religiosità, quando c’è, si fa rituale. E’
fatta di gesti, di parole e di pratiche senza la conversione del
cuore. Anche la Messa e i sacramenti perdono la loro grazia,
diventano “cerimonie” civili e non salvano niente.
La
parola ci stimola ad interrogarci. Noi da che parte stiamo, che
religiosità pratichiamo? L’ascolto della parola ci porta ad
accoglierla, a cambiare il cuore e a portare frutti di conversione?
Il Signore, oggi come ogni domenica, è a mensa con noi peccatori.
Si
fa nostro cibo per darci la forza di vivere in lui e come lui. Dopo
questa esperienza dobbiamo guardare gli altri con bontà,
misericordia e perdono, come faceva Gesù.
Se
non lo facciamo significa che la nostra religiosità non ci ha
portato a incontrare Dio.
La
risposta di Levi alla chiamata di Gesù diventa esemplare per noi.
Egli
decide subito di seguire Gesù, fa una scelta radicale, dimostra di
aver fede come Abramo ebbe fede. Levi segue Gesù senza sapere
quello che gli accadrà.
Se
Dio può far nascere un figlio da corpi considerati morti, può
suscitare anche amore e speranza nei cuori morti dei peccatori e può
garantirci un futuro che ancora non vediamo.
Preghiamo
insieme perché Dio ci doni di capire e di vivere quello che ci ha
detto.
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ORDINARIO
11 A
2005
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La
parola che abbiamo ascoltato ci educa a vivere bene l’alleanza con
Dio.
Es
19 racconta che Dio chiama Mosè sul Sinai, gli parla e poi lo manda
al popolo ebreo per riferirgli le parole dell’alleanza. Mt 9
racconta che Gesù chiama a sé i Dodici, li forma e li manda ad
annunciare il regno di Dio. In tutte due gli eventi lo scopo della
chiamata, del dialogo e della missione è promuovere l’alleanza di
Dio con il suo popolo.
Del
racconto dell’esodo noi ricordiamo soprattutto le dieci parole, i
dieci comandamenti.
Ci
sforziamo di capire che non sono una legge ma la strada
dell’alleanza aperta da Dio.
In
realtà nel testo odierno Dio comunica al popolo l’amore grande
che prova per lui.
Dio
aveva tratto Israele dalla schiavitù dell’Egitto, facendo grandi
prodigi contro gli Egiziani, e stava per introdurlo nella terra
dell’abbondanza, che gli aveva promesso.
Lo
aveva sollevato su ali d’aquila, cioè lo aveva portato in alto,
al sicuro accanto a lui.
L’alleanza
offerta da Dio non è come quella che stipulano gli uomini, sempre
insicura e minacciata, ma è una nuova condizione di vita ed
è per sempre come la vita di Dio.
Dio
prende a parte per sé il popolo, come uno sposo prende a parte per
sé una vergine. Israele sarà sacra a Dio e partecipe della sua
santità, perché parteciperà alla sua gioia.
E’
l’alleanza sognata da Dio. Essa richiede che Israele ascolti
attentamente il suo Dio e custodisca l’alleanza come la cosa più
preziosa offerta alla sua vita. Dio descrive la vita nuova del
popolo dell’alleanza come sacerdozio regale e santità. Si tratta
cioè di una comunione senza difetti e senza limiti, primizia del
regno dei cieli.
Mt
9 racconta Gesù che cammina predicando il vangelo del regno e
guarendo le persone.
Egli
è preso da una grande amore, la compassione verso le folle e la
loro solitudine. Matteo usa l’immagine del gregge stanco e
abbandonato, perché ancora senza pastore.
Una
situazione disperata come quella di Israele nel deserto; un popolo
senza terra, senza identità e senza regno, a cui Gesù dona
l’amore grande, che sacrifica la sua vita per loro.
Gesù
chiede alle folle la preghiera perché Dio mandi operai per
costruire il suo regno.
La
preghiera esprime il desiderio della sposa che la vigna sia lavorata
e fatta fruttificare, perché ci sia vita per tutti; per Dio che
sogna il regno dell’alleanza e per le folle abbandonate che ne
hanno estremo bisogno. La misericordia di Gesù e il lavoro degli
operai costruiscono il regno dei cieli. E’ un’alleanza
costituita dal dare e dal ricevere gratuitamente, senza calcoli
umani ma assecondando la spinta infusa da Dio.
Come
risposta al desiderio di Dio e al bisogno delle folle Gesù chiama a
sé i Dodici e li invia a lavorare nella vigna di Dio. La loro
missione sarà di recuperare le pecore perdute della casa di Israele
e di annunciare il regno dei cieli, come una realtà che si è
avvicinata, perché Dio e l’uomo si sono alleati.
Questi
due testi biblici ci educano a vedere l’amore di Dio che sente e
vede le sofferenze del suo popolo e scende a liberarlo; un Dio
attento, partecipe e
compassionevole.
Il
Dio che sente compassione non coccola il suo popolo lasciandolo
com’è, ma lo sveglia, lo getta in cammino, gli fa attraversare il
deserto, lo educa a credere al regno, ad amarlo e ad impegnare la
sua vita per costruirlo insieme con lui. Essere compassionevoli
significa vedere la compassione di Dio che agisce nel cuore degli
uomini e convincerli ad affidare ad essa il proprio destino. La
preghiera indica l’umiltà con cui dobbiamo svolgere la missione:
non offriamo qualcosa di nostro ma creiamo spazio nel cuore degli
uomini perché credano e accolgano l’amore di Dio. E’ questo il
percorso nuovo della missione che il Signore ci affida. L’umiltà
di condividere con gli altri quell’amore di Dio che abbiamo
conosciuto e che è la nostra gioia.
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ORDINARIO
12 A
2005
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Da
questa domenica fino a settembre alleggeriamo la celebrazione
dell’eucaristia.
Una
lettura sola prima del vangelo. Il celebrante la sceglie, introduce
la celebrazione e fa una omelia meno impegnativa. Anche i canti e
riti saranno essenziali. Credo che in tempo di caldo la brevità
favorisca la partecipazione personale e comunitaria alla preghiera.
Il
vangelo di Mt che abbiamo letto ci propone per la riflessione e la
preghiera tre cose.
La
vita cristiana è profetica. Il profeta non è uno che predice
il futuro ma uno che interpreta il vangelo nel tempo presente per
rendere possibile il futuro voluto da Dio. Gesù è stato profeta
perché, nel suo tempo, ha annunciato il vangelo, che era compimento
dell’AT ma anche novità di vita, contro i ritardi delle autorità
e i peccati del popolo.
La
sua vita era profezia perché attuava la volontà di Dio ed era
esempio, cioè strada che egli apriva a quanti volevano essere
fedeli alla parola di Dio, anche fino alla morte.
Il
profeta denuncia errori, ingiustizie e compromessi e indica le
strade su cui cammina il regno di Dio. La prima lettura ci propone
la vita del profeta Geremia, che era perseguitato perché costretto
a dire cose spiacevoli per i suoi contemporanei, spiacevoli per chi
non le accoglieva ma belle per chi cercava di conoscere e fare la
volontà di Dio.
E’
importante che in ogni tempo, soprattutto nel nostro tempo che
cambia rapidamente, ci siano i profeti che traducono il vangelo in
parole, iniziative e gesti nuovi, attuali e credibili oggi. Il
motivo per cui annunciamo e spieghiamo con abbondanza la parola di
Dio è quello di rendere vivibile la profezia oggi. La profezia è
l’attuazione della Parola.
Far
vivere la profezia è compito di tutto il popolo di Dio. E’ il
primo aspetto della missione: andate e annunciate il vangelo a
tutte le creature. Chi lavora in fabbrica o nella scuola, chi è
professionista, chi fa politica porterà nel suo ambiente e nelle
relazioni possibili il vangelo e la grazia di essere sacramento del
Regno. Ci sono sempre occasioni per difendere la propria fede,
comunque si può sempre trasformare il lavoro in preghiera.
E’
necessario però vivere in conformità al vangelo e non secondo la
mentalità mondana e promuovere il diritti delle persone, evitando
di arroccarsi in posizioni fondamentaliste.
Anche
all’interno della comunità è necessario il rispetto dei diversi
carismi e dei tempi di crescita delle persone. Bisogna accettare che
ci siano anche ritardi, limiti e peccati.
Il
vangelo ci insegna a praticare la correzione fraterna, cioè a
confrontarci personalmente con il fratello che, a nostro giudizio,
sbaglia. Se ti ascolta, dice il vangelo, avrai guadagnato
il tuo fratello. La preoccupazione non è vincere il fratello ma
guadagnarlo.
Se
non ti ascolta parlane con lui nel gruppo di cui fai parte e solo se
non ti ascolta neanche lì, parlane, sempre con lui presente,
all’assemblea. Molte volte noi facciamo l’inverso, parliamo con
l’autorità religiosa senza che il nostro fratello sappia quello
che diciamo di lui oppure ne parliamo con la gente, senza che egli
lo sappia e possa difendere le sue ragioni. Questa non è la
profezia che salva ma è maldicenza, mancanza di coraggio e di
responsabilità ecclesiale; è dividere invece che unire.
Per
essere profeti occorre avere tanta fiducia in Dio. Non
temere! è il messaggio costante che Dio rivolge a coloro che
chiama e invia. Il Signore ci conosce e ci ama, più dei passeri o
dei fiori del campo. E soprattutto Dio difende la sua causa, è il
primo missionario, colui che manda e consegna il Figlio. Il Figlio
sa che il suo spirito è nelle mani del Padre. Ha fiducia in lui.
Nel
ritiro di fine anno pastorale abbiamo sottolineato che la Chiesa è
santa e peccatrice insieme. Questa è e sarà la realtà. Occorre
vincere il male con bene e promuovere il bene che c’è. Pensiamo
ai martiri, ai vergini, ai consacrati, agli sposi che vivono il
matrimonio come sacramento anche nei momenti di fatica; pur
nei loro difetti le persone sono anche visitate dalla parola,
consacrate dai sacramenti, abitate dalla santità. Anche nella
nostra comunità c’è tanto bene. Valorizzarlo significa
riconoscere l’opera di Dio.
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ORDINARIO
13 A
2005
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La
pagina di Matteo che abbiamo letto contiene alcuni detti di Gesù
sulla vita cristiana.
Ci
fermiamo ai primi tre, che sono legati fra loro e con la prima
lettura.
1 Chi ama il padre o la madre, il figlio o la figlia più di me
non è degno di me.
Non
essere degni significa non poter aver parte con Gesù, come egli
dice a Pietro quando rifiuta di lasciarsi lavare i piedi. Pietro
reagisce immediatamente per non perdersi.
Anche
noi dovremo lasciarci provocare. Che senso dare a queste espressioni
di Gesù?
Innanzi
tutto richiamiamo la prima lettura. Una donna di Sunem accoglie in
casa il profeta Eliseo quando, nel cammino per compiere la sua
missione profetica, passa di là. Chiede al marito di ritagliare
nella casa uno spazio per lui: una stanza in muratura, un letto, una
tavola, una sedia e una lampada. Questa accoglienza generosa al
profeta di Dio ottiene per lei la ricompensa del profeta. Quale? Il
profeta reagisce ai tempi di aridità e di tradimento
annunciando il futuro nuovo che Dio apre. Non lo annuncia
solo a parole ma con la passione e convinzione di chi impegna la sua
stessa vita. La sua ricompensa sarà vedere quel futuro per cui si
dona, cioè il realizzarsi della profezia.
La
donna di Sunem ha dal profeta l’annuncio che avrà un figlio, cioè
che Dio le aprirà davanti il futuro che lei aveva tanto sperato così
da impegnare la vita nel matrimonio.
E’
il segno che le relazioni familiari sono dono di Dio, che attraverso
la sponsalità e la famiglia ci rende partecipi alla sponsalità di
Cristo e della Chiesa e alla sua famiglia.
E’
l’idea della famiglia come esperienza del divino che attraversa
tutta la bibbia; è l’esperienza universale, la profezia che tutti
gli uomini abbracciano per avere pienezza di vita, il futuro che Dio
ci prepara all’umanità, le relazioni di amore simili alle sue.
Gesù
istituisce un paragone tra relazione con i familiari e relazione con
lui.
In
Luca chiede di odiare i propri familiari e in Giovanni di odiare la
propria vita.
In
Matteo annuncia che i discepoli devono amare più lui che i
familiari; annuncia cioè un futuro diverso voluto da Dio in cui
tutti vivranno della relazione con Gesù.
Nel
prologo Giovanni dice chiaramente che tutte le cose furono fatte per
mezzo del Verbo e che senza di lui non ne fu fatta neppure una sola.
Ciò che è stato fatto in lui era vita e la vita era la luce degli
uomini. Gesù va amato più di tutti perché possiede e dà la
pienezza della vita. E’ sulla linea delle cose che appartengono
anche alla vita umana.
I
figli lasciano i genitori per farsi una loro famiglia ed la amano più
della prima. Questo fa sì che l’amore continui ad espandersi e a
legarsi. Se non ci fosse questo amare di più, questo lasciare
vecchie relazioni per le nuove la vita sulla terra non avrebbe
futuro.
Il
discepolo però deve avere chiara l’idea di fondo: Gesù va amato
di più di tutti perché è la pienezza della vita per tutti. Nessun
altro ci domanda di lasciare Gesù per avere la pienezza. Solo il
tentatore dice questo ma noi sappiamo che il diavolo è bugiardo.
Chi
non prende la sua croce e non segue dietro a me, non è degno di me.
La
croce è centrale nella vita di Gesù e della Chiesa, perché è la
strada della trasformazione, il crogiuolo dove si affina l’oro e
l’argento purificandoli dalle loro scorie, il dolore che
accompagna il parto della vita. La croce è stato questo nella vita
di Gesù, e lo è ancora per chi segue dietro Gesù, per chi la
abbraccia per arrivare dove è arrivato lui. Il dolore ha senso solo
nella nuova creazione, nella redenzione.
Chi
ha trovato la sua vita la perderà e chi ha perduto la sua vita a
causa mia, la troverà.
La
vita vale la pena di essere persa non perché è un male, ma per la
causa di Gesù, cioè per rendere possibile cieli e terra nuovi.
Solo la croce di Gesù confina con la gloria.
Preghiamo
perché la parola di Dio ci penetri e noi ci lasciamo trasformare
vivendola.
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ORDINARIO
14 A
2005
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Abbiamo
letto gli ultimi versetti del cap. 11 di Matteo; siamo quasi a metà
del vangelo.
La
predicazione di Gesù in Galilea non ha avuto successo. Nonostante
la sapienza contenuta nell’annuncio e i segni compiuti da Gesù,
il messaggio non è stato accolto.
I
sapienti e gli intelligenti, gli scribi e i farisei, i ricchi e
quelli che costituiscono la rete del potere tra la gente si sono
chiusi al vangelo; i piccoli invece, credono in Gesù.
Gesù
verifica il suo lavoro davanti al Padre nella preghiera e davanti ai
discepoli.
I
sei versetti che abbiamo ascoltato sono un tesoro di sapienza per
ogni verifica cristiana. Riconosco a te, Padre, che hai nascosto
queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai
piccoli. Si, o Padre, perché così è stata cosa gradita davanti a
te.
Il
successo della missione è assicurato perché è il Padre ad aver
nascosto ai sapienti e rivelato ai piccoli. Gesù riconosce che il
Padre agisce con lui e lo conferma n. missione.
Verifichiamo
come va la missione oggi, con le parole di alcuni sapienti del XX
secolo.
Pietro
Citati ha scritto che il disagio esistenziale è come un gas diffuso
in ogni angolo dell’Occidente. Vittorino Andreoli, dopo aver
studiato il caso dei giovani piemontesi che, tirando i sassi dal
cavalcavia, avevano ucciso una sposa in viaggio di nozze, ha detto:
“Questi giovani non sono malati e neppure cattivi; purtroppo sono
vuoti e quindi incapaci di distinguere il bene dal male”. Victor
Frankl scrive: Oggi ci confrontiamo con una frustrazione
esistenziale: sentiamo la vita insignificante, e un senso di vuoto
interiore.
Le
persone hanno bisogno di una luce che dia senso alla vita,
rendendola bella e quindi degna di essere vissuta. Mario Soldati ha
scritto che il mondo oggi soffre per aver perduto la religione e che
quasi tutta la poesia di oggi è rimpianto di una religione perduta.
Norberto Bobbio ha scritto: “Siamo circondati dal mistero. Sento
di essere arrivato alla fine della vita senza aver trovato una
risposta alla domanda ultima. La mia intelligenza è umiliata”.
Giuseppe Prezzolini dichiarò: “Eccomi qui solo, disperato, senza
verità e senza appoggio, senza nessuna voce che mi risponda a
queste domande: dove sono? Da dove vengo? Dove vado? Non so chi
interrogare”.
Noi
cristiani siamo portatori della risposta meravigliosa che il Padre dà
attraverso Gesù.
Per
rispondere alla domanda sul senso della vita dobbiamo saper onorare
le ragioni dell’intelligenza non umiliata ed avere la fede, che
aveva Gesù, che è il Padre che agisce in noi quando annunciamo il
vangelo. La proposta è il vangelo e non le devozioni e i miracoli e
la conferma viene dai piccoli e non dall’accoglienza dei sapienti
del mondo.
Bisogna
purificare la nostra pastorale e la nostra vita personale e
comunitaria.
La
pastorale non è un piano d’azione sganciato dalla vita delle
persone, perché quando ci sono progetti pastorali ma non ci sono
apostoli, cioè testimoni, non c’è apostolato.
Ecco
il grest come risposta alla domanda di senso dei nostri giovani,
come un tempo in cui, attraverso il tema che sarà sviluppato, il
gioco, la preghiera, la manualità, le gite, il dialogo fra le varie
età, tutti scoprono la gioia della creatività, dell’amicizia e
della fede.
Abbiamo
preparato gli animatori con un corso tenuto da un esperto delle
conoscenze psicologiche e tecniche necessarie a un buon animatore;
abbiamo fatto un ritiro di tre giorni in montagna per conoscere la
figura di Gesù animatore, il vangelo della vita e della grazia, che
formano ai valori alti e belli della vita. La parrocchia non fa un
grest a metà, fatto cioè solo di proposte umane. Propone una
testimonianza di vita in cui vangelo, fede e grazia sono gli
elementi portanti. Ecco perché il grest inizia oggi, giorno del
Signore, quando la comunità cristiana si riunisce nell’ascolto di
Dio e nella preghiera.
Che
il grest sia educativo dipende dalla simpatia e dalla preghiera di
tutta la comunità.
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ORDINARIO
15 A
2005
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Chi
ha orecchi, ascolti. L’orecchio recepisce tutti i suoni. La
persona seleziona quelli che vuole ascoltare. La parola di Dio
merita attenzione continua, perché è facile presumere di sapere e
non valorizzare, mentre la parola è viva-attuale. L’omelia che
sto facendo è uguale per tutti ma produce effetti diversi. Dipende
da come uno comprende la parola.
Comprendere
deriva dal latino cum prehendere e significa prendere con sé,
confrontare parola e vita, con simpatia, con passione sia per la
parola sia per la vita. E’ quel continuo rimbalzare della parola
nel cuore, che era la caratteristica dell’ascolto di Maria.
Può
essere un ascolto personale, fatto in gruppo o con un accompagnatore
spirituale.
La
parabola propone quattro esemplificazioni. Naturalmente possono
essere di più.
o
Uno può ascoltare e non comprendere, non
accogliere la sfida che la parola porta.
Comprende
il senso delle parole ma la vita non viene toccata. Il cuore riceve
la parola come la strada riceve la semente, l’una resta estranea
all’altra; la parola resta in superficie e il maligno la porta
via. E’ possibile che non assorbiamo la parola come la terra può
non assorbire l’acqua e restare infeconda. La Chiesa deve favorire
questa comprensione.
La
gente dopo l’omelia dovrebbe poter dire non “che bella
predica!” ma “che bel vangelo!” Siamo passati dalla
liberazione della Scrittura operata dal Concilio, alla stesura del
catechismo della Chiesa cattolica, la parola incapsulata in formule
teologiche, ed ora al Compendio del catechismo, cioè alle domande e
risposte da mandare a memoria, come ai tempi di Pio X.
o
Uno accoglie la parola con gioia ma non gli
permette di mettere radici in se stesso.
Accade
a chi è incostante nel cammino di fede. E’ noto che la parola
genera tribolazione e persecuzione, perché la cultura di Dio e
quella umana sono diverse. Per Dio la parola ha una grande forza
creativa, fa crescere la creazione redimendola e trasformandola in
regno di Dio. Ogni parto è lacerante e doloroso ma porta alla gioia
di una nuova vita. Gesù proclama beati coloro che soffrono a causa
del Regno di Dio. Per l’uomo la parola è come il seme in un
terreno pietroso: attecchisce ma le pietre sono la sua tomba, perché
le impediscono di crescere. La parola va accolta togliendo le pietre
che la schiacciano.
Ognuno
di noi deve liberare il campo della sua vita dai pesi che rubano
spazi vitali.
o
Uno è preoccupato del mondo e insegue la
ricchezza, il potere e gli onori.
Questi
beni riempiono la persona e non lasciano respiro alla parola. La
parola aveva attecchito ma viene soffocata da queste pre-occupazioni
e diventa infruttuosa.
o
Uno ascolta e comprende e la parola porta frutto
in lui secondo la comprensione.
C’è
una differenza fra i santi: lo spazio dato alla parola, il tempo
dedicato a studiarla e pregarla e praticarla, le strategie
spirituali messe in atto per mantenerla viva.
Oggi
ci sono persone che non hanno tempo per la parola, ci sono movimenti
tutti dedicati al successo e a quello che gratifica al momento.
L’ascolto della parola richiede anche studio serio, pazienza nelle
difficoltà e perseveranza nella speranza. La parabola ci interroga:
come comprendiamo la parola?
La
profezia di Isaia annuncia l’efficacia della parola di Dio. La
parola uscita dalla mia bocca non tornerà a me senza aver operato
ciò per cui l’ho mandata. Sembra in contrasto con la
parabola. In realtà è un altro aspetto; è ovvio che Dio non parla
e non agisce invano e che l’uomo non può far fallire Dio. Sono
due aspetti conflittuali. Bisogna cercare la risposta nella
Scrittura. In Ger 1,12 il Signore dice: “Io vigilo sulla mia
parola per realizzarla”. Dio
non dice solo ma realizza. Anche l’inizio della parabola concorda.
Il
seminatore esce a seminare, continua a farlo e lo fa dovunque, con
abbondanza.
Se
non ascoltiamo la parola essa passerà ad altri. E’ già passata
da Israele alla Chiesa e, nella storia cristiana, è passata
dall’oriente all’occidente. Ora, che le nostre chiese si
svuotano, sta passando dall’occidente all’America latina; in
futuro c’è l’Asia e l’Africa.
Dio,
dopo aver fatto il giro del mondo, può chiudere o iniziare un altro
giro. Alla fine, anche se la maggioranza degli uomini avrà
rifiutato o tradito la parola, gli eletti saranno moltitudini,
secondo l’Apocalisse. Ognuno di noi deve decidere se comprendere
con simpatia la parola nella propria vita, accettando le
trasformazioni che opera in essa.
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ORDINARIO
16 A
2005
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Nelle
parabole Gesù rivela le cose nascoste fin dalla creazione del
mondo, il mistero nascosto, dice Paolo. Non basta capire il
racconto; occorre vedere ciò che vi è nascosto.
Matteo
oggi ci propone tre parabole. Propongo qualche spunto per la
preghiera e la vita.
Il
paragone tra chicco di senape e regno dei cieli. Il chicco più
piccolo diventa il più grande degli ortaggi. Mt dice che diventa un
albero. La botanica non conferma questa idea, ma Mt si interessa ai
testi dell’AT in cui si parla degli uccelli del cielo che abitano
tra i rami degli alberi. Ricordo tre capitoli molto belli, che vi
invito a leggere.
Dn
4: Nabucodònosor racconta a Daniele una visione. Aveva visto un
albero lungo, la cui cima raggiungeva il cielo; era così grande che
si poteva vedere da tutta la terra. Aveva rami belli, frutti
abbondanti; nutriva tutti, faceva ombra alle bestie e gli uccelli vi
nidificavano. Ma Dio ordinò di tagliarlo, lasciandogli solo il
ceppo e le radici.
Daniele
spiega al re che l’albero raffigurava il suo regno e che Dio gli
toglieva la potenza finché
non avesse riconosciuto che Dio è il vero re e che egli dona il
regno a chi vuole.
Ez
31: Dio manda il profeta Ezechiele a dire al faraone d’Egitto
che si crede grande.
L’Assiria
era un albero alto, bello, ricco di frutti; gli animali partorivano
alla sua ombra, gli uccelli nidificano sui rami; era invidiato da
tutti gli alberi del giardino di Dio.
Poiché
si era inorgoglito nel suo cuore, Dio lo dà ai popoli stranieri che
lo abbattono.
Ez
17: Descrive uomini che piantano ramoscelli perché diventino
l’albero più grande. Anche Dio prenderà un ramoscello e lo
pianterà, farà frutti e diventerà magnifico; gli animali vivranno
alla sua ombra e gli uccelli dimoreranno sui suoi rami.
Dio
conclude: Io sono il Signore che umilio l’albero alto e innalzo
l’albero basso; faccio seccare l’albero verde e germogliare
l’albero secco. Gesù raffigura all’albero il regno di Dio, quello che il
Padre ha dato a lui, il piccolo. Esso diventerà grande e bello e
ospiterà tutti e li nutrirà. La parabola del chicco di senapa
insegna a contare su Dio e a cercare prima di tutto il regno di Dio,
perché diventerà bello, fecondo e fonte di vita.
La
parabola del campo seminato a frumento e a zizzania dice alcune cose
conosciute e altre che sono ancora da sondare. Il frumento e la
zizzania devono crescere insieme fino alla mietitura, ma qual’è
il frumento e quale la zizzania? I profeti sono stati ritenuti
zizzania e sono stati scomunicati e uccisi, cioè delegittimati e
sradicati dalla comunità. Anche Gesù è stato trattato da
zizzania. Alla mietitura però Gesù e i profeti risultano il
frumento buono per i granai di Dio. Ricordiamo i peccati della
Chiesa. L’inquisizione mandava
al rogo chi non era conforme alla dottrina ufficiale, anche i
santi. Anche oggi nella Chiesa tanti scartano quello che lo Spirito
ha detto nell’ultimo Concilio. Le pietre scartate sono davvero
scarto o pietre angolari del regno di Dio? Dio vuole che Pietro e
Giovanni, l’istituzione e la profezia, vivano insieme. Una non va
strappata a scapito dell'altra. Ricordiamo i tre primati che vi ho
presentato nel ritiro conclusivo dell’anno pastorale. Ognuno di
noi crescendo può passare da grano a zizzania e da zizzania a
grano. Ci sono primi che risulteranno ultimi e ultimi che
risulteranno primi. Il vangelo non domanda di stare con
l’istituzione o con la profezia ma di comprendere Parola e
vita.
Anche
nella vita civile, la resistenza, la libertà di coscienza, la
democrazia, i valori della rivoluzione francese e del marxismo, sono
state cose demonizzate e poi valorizzate.
Tutto
va vagliato dal vangelo e va valorizzato il buono, ovunque sia.
Infine
la parabola del lievito che fermenta la pasta ci ricorda che il pane
non è né lievito né pasta ma le due cose lavorate e cotte
insieme. Chiediamo al Signore di liberarci dalle partigianerie,
perché possiamo crescere sereni anche in un mondo dominato dal
male.
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ORDINARIO
17 A
2005
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Mt
ci presenta oggi tre parabole che utilizzano tre immagini: il
tesoro, la perla e la rete.
Gesù
li mette a confronto con il regno dei cieli. Forse per noi è meglio
metterli a confronto con Gesù Cristo. Oggi, ad esempio, si scelgono
i padrini con questo criterio: non è un credente o un praticante ma
è una persona onesta. Si confonde regno di Dio con onestà. Essere
cristiani significa invece credere in Gesù e appartenere a lui e
a coloro cui egli appartiene: il Padre, lo Spirito, il regno
di Dio. La fede introduce in queste realtà.
I
farisei moderni devono lasciare quello che possiedono, anche la
ragione e la morale, per appartenere a Cristo. Oggi torna in voga,
fra teologi e prelati, il culto della ragione.
Dicono
che è dono di Dio e che tutto può essere vagliato e annunciato
dalla ragione.
Ma
la parola di Dio abita oltre la ragione ed essi annunciano solo
ragionamenti umani.
Gesù
è dono di Dio ed insieme mistero e comunica cose che la ragione non
capisce.
Anche
il cuore manifesta cose che la ragione non capisce; tanto più la
sapienza di Dio.
o
Un uomo trova un tesoro in un campo e vende tutti i
suoi averi e compra quel campo.
Il
tesoro lo si trova dove lo mette Dio, perché sia scoperto. Il campo
dove Dio nasconde il tesoro è la creazione, le religioni e, per i
cristiani, la Chiesa; e il tesoro è Gesù Cristo.
Il
Padre rivela suo Figlio a chi vuole e quando vuole. Non ci sono
diritti o precedenze.
A
chi trova Gesù Cristo è chiesto di seguire lui. Cristo infatti è
per lui lo sposo che gli chiede di riorganizzare con lui tutta la
vita. Nella sponsalità non ci sono mezze misure.
Chi
perde la sua vita a causa di Gesù, è nella gioia; perché trova la
vita eterna.
Che
cosa si fa del tesoro trovato? Si estraggono da esso cose nuove e
cose antiche.
Uno
scriba, un esperto della parola dell’AT, quando diviene discepolo
di Gesù, estrae da lui le cose antiche della sua fede israelitica e
le cose nuove che Gesù porta con sé.
In
Gesù c’è tutto e senza di lui non c’è niente, perché tutto
è stato creato in lui.
Gesù
è la luce vera che illumina ogni uomo. Dio, scrive S. Paolo, ci ha
predestinati ad essere conformi al figlio suo che è per noi
immagine. Conta su di me è il
motto del grest.
o
Una rete gettata o trainata nel mare raccoglie ogni
genere di pesci.
La
cernita viene fatta non dalla rete ma dai pescatori alla fine della
pesca.
I
pescatori raccolgono i pesci buoni e gettano via i cattivi. Nel mare
i pesci sono insieme mentre per la mensa vengono scelti. Nessuno
cucina insieme pesci buoni e pesci cattivi, funghi buoni e funghi
velenosi, perché mescolati non porterebbero vita ma morte.
Questa
parabola ricorda i novissimi. Un uomo che non ha fede in Gesù
Cristo e non lo riconosce come Signore, non può entrare in
paradiso, altrimenti il paradiso non sarebbe più tale. Il problema
non è se Dio perdona tutti o no ma se gli uomini riconosceranno Gesù
Cristo come Signore. I demoni non lo riconoscono e così non lo
riconosceranno gli uomini che non appartengono a lui nella fede e
nella grazia.
Il
Signore ci ha creati perché aderendo a Gesù giungiamo alla verità
tutta intera.
Possiamo
immaginare un paradiso in cui gli uomini sono costretti a stare
contro la loro libertà e senza amore? L’idea corrente è che il
perdono sia una cosa facile, possibile all’ultimo momento, per
bontà di Dio. La tentazione moderna è che Dio salva tutti.
Il
diavolo ha insinuato ad Eva che Dio non voleva che gli uomini
diventassero come lui. Oggi insinua che Dio è buono e porta tutti
in paradiso senza pretendere niente da loro.
Il
demonio ottiene lo stesso risultato: allontanare gli uomini da Dio.
Essi non lo cercano e non cercano di appartenergli, perché pensano
di godere la vita ora e il paradiso dopo.
Preghiamo
il Padre di aggiungere fede alla nostra fede, perché perseveriamo
nella fede e
nell’impegno di essere conformi al figlio suo, nostro salvatore.
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ORDINARIO
19 A
2005
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Una
riflessione leggera ma non banale. Ci fermiamo su alcuni elementi
dei brani biblici, trascurando il contesto e l’insieme, che sono
sempre interessanti ma anche più faticosi.
1 Il racconto di Mt ha una costruzione simile ai racconti di
risurrezione.
I
discepoli pensano che Gesù che cammina sulle acque sia un fantasma,
hanno paura, non riconoscono Gesù se non dopo l’intervento di
Dio. Allora manifestano fede e meraviglia.
Mt
così vuole darci un messaggio: Dio è presente nella nostra vita;
occorre riconoscerlo nella fede e vivere alla luce della fede che lo
riconosce.
2 La fede è ambivalente, cioè ha due valenze,
ugualmente importanti.
Pietro
chiede a Gesù: comanda che io venga da te sulle acque. E Gesù
gli dice: vieni!
Pietro
si fida, lascia la barca che rappresenta ancora una sicurezza e
cammina nelle onde agitate dal vento. Crede in Gesù ma cede alla
paura e comincia ad affondare.
La
stessa cosa gli accade mentre cammina con Gesù e i discepoli verso
Gerusalemme e fa la sua bella professione di fede in Gesù,
riconoscendolo come figlio del Dio vivente.
Gesù
lo dice beato perché ha ricevuto la rivelazione dal Padre,
ma poco dopo lo chiama satana perché nella vita pratica cerca di
distogliere Gesù dal fare la volontà del Padre. Pietro si dimostra
uomo di poca fede, a detta di Gesù stesso.
Dimostra
una valenza della fede, la fede della mente e del cuore.
Non
conserva la fede nelle difficoltà del cammino, cioè dentro le
persecuzioni dove si costruisce il Regno; non le vince con la forza
della fede come fa Gesù nella passione.
E’
la fede staccata dalla vita, la fede dei compendi del catechismo,
che si dicono a memoria ma che non riscaldano il cuore come il
confronto con la parola di Dio.
Tutti
i credenti corrono il pericolo di scendere a compromessi per salvare
la vita o il successo o tanti interessi umani. Contano sui loro
ragionamenti, sulle loro amicizie e pretendono di salvare il regno
con la loro diplomazia. Quando si comportano così, finiscono con il
tradire la fede ed affondare e diventano uomini di mondo.
Hanno
poca fede anche coloro che vivono solo la valenza della vita, cioè
che praticano la giustizia o il vangelo ma non fanno riferimento e
affidamento in Dio ma solo nell’uomo.
Possono
dare una bella testimonianza umana ma questa da sola non fa il regno
di Dio.
Lo
dice anche il salmo uno: maledetto l’uomo che confida
nell’uomo.
3 Dove o come possiamo incontrare Dio?
Gesù,
congelata la folla, sale sul monte solo a pregare; e a sera è
ancora là.
Elia
sale sul monte Oreb (Sinai) e attende Dio, riparato entro una
caverna.
Ad
un certo momento sente un silenzio sottile. (Così scrive il
testo masoretico che la Cei traduce: un mormorio di vento leggero).
Che cosa significa?
Non
basta entrare nel silenzio, se ci stiamo con il peso dei nostri
pensieri, sentimenti e sicurezze; se pretendiamo di vedere o di
provare. Il silenzio può essere un muro pesante, o un terremoto che
sconquassa o un fuoco che brucia tutto. Non bastano neppure le
pretese di bene, come Pietro che chiede di camminare sulle acque. Se
contiamo su ciò che è umanamente grande o percepibile o
valutabile, impediamo a Dio di manifestarsi.
La
presenza di Dio accade nel silenzio sottile, cioè egli si fa
presente e assente insieme. Si fa presente soprattutto nei momenti
della prova. La tribolazione produce pazienza, la pazienza virtù
provata, la virtù provata speranza. E nella speranza noi
incontriamo Dio. Dio è presente nel silenzio della preghiera, come
quella di Gesù solo sul monte.
Egli,
dopo la moltiplicazione dei pani, si ritira sulla montagna a
pregare.
Godere
del successo umano per i segni che compie gli impedirebbe di esser
l’Amato.
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ORDINARIO
20 A
2005
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Gesù
aveva rimproverato, per la loro poca fede, i discepoli nel lago in
tempesta 8,26 e Pietro mentre camminava sulle acque
incontro a lui 14,31.
Qui invece loda una donna di Canaan, che gli chiedeva aiuto,
dicendole: Davvero grande è la tua fede!
Il
racconto mette in luce la potenza della fede ed educa a coltivarla.
La donna conosce la religione ebraica, perché chiama Gesù:
figlio di Davide. Essa ha una figlia tormentata da un demone,
una malattia spirituale, che la fa soffrire tutta, anche nel corpo.
Gesù
era sensibile a questo perché era venuto per combattere e scacciare
i demoni.
Egli
mantiene verso di lei un riservo, che prova la sua fede e finisce
per esaltarla invece che scoraggiarla. Innanzitutto sta in silenzio:
non rispose a lei parola.
Gesù
sembra preso tra due fuochi: la fede della donna e la missione che
ha ricevuto di andare solo alle pecore perdute d’Israele. Perché
la missione di Gesù è limitata ad Israele? Perché questa
differenza di trattamento fra Israeliti e pagani?
Perché
Dio si è scelto un popolo fra tutti, lo ha attirato a sé su ali
d’aquila, ha stabilito un alleanza con lui e insieme a lui
accoglie tutti i popoli per costituire una famiglia nuova.
E,
nella pienezza dei tempi, invia il Figlio per costruire su di lui
una umanità nuova ed una alleanza feconda che porta la possibilità
della salvezza fino ai confini della terra.
La
salvezza non cammina in ordine sparso ma secondo il disegno
d’amore di Dio.
I
suoi discepoli hanno poca fede, la donna pagana ha una fede grande.
Il
suo silenzio è interrotto dai discepoli che gli chiedono di
mandarla via, perché il suo grido di aiuto dà fastidio, e dalla
donna che gli si prostra davanti e gli chiede: salvami.
Gesù
provoca chiarezza con l’immagine del pane dei figli e dei
cagnolini. Egli rivendica che i pani sono per i figli e la donna
afferma che ne resta anche per i cagnolini.
Il
pane nella fede biblica è simbolo del banchetto sovrabbondante di
Dio.
“Beato
chi mangerà il pane nel regno di Dio” esclama uno degli invitati
esortati da Gesù a invitare a pranzo coloro che non hanno
possibilità di ricambiare. Lc14,15 “Non di solo pane vivrà l’uomo ma
di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” risponde Gesù al
diavolo che lo tenta 4,4.
Gesù stesso con 5 pani
e 2 pesci sfama 5000 uomini 14,15
e dice di essere il pane vivo, che è disceso dal cielo e dà la
vita al mondo.
La
donna professa questa fede biblica e con questa fede ottiene quello
che desidera.
Isaia
insegna che il tempio di Dio è casa di preghiera per tutti i
popoli. Essi però sono chiamati ad aderire al Signore per servirlo,
ad amare il nome del Signore, a santificare il giorno del Signore e
ad essere fermi nella sua alleanza nella religione in cui vivono.
E
noi, che conosciamo il Signore e siamo suoi figli, abbiamo mille
ragioni in più per vivere nella fede in Dio e nella fedeltà
all’alleanza; la più importante è che siamo fatti luce per
vincere le loro tenebre e lievito per lievitare la loro pasta.
Bisogna
educare la nostra fede, alla luce della parola di Dio che è lampada
ai nostri passi nel cammino ecclesiale, bisogna chiedere a Dio che
aggiunga fede alla nostra fede, perché la lampada non si spenga
nelle asperità del cammino, bisogna aiutarsi nella comunità a
celebrare la fede entro le tribolazioni che siamo chiamati a
sopportare.
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ASSUNTA
2005
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Un
dogma è sempre difficile da interpretare e da vivere. Il
dogma dell’assunzione è stato proclamato nel 1950, e quindi è
recentissimo rispetto alla storia della Chiesa.
Vigeva
allora una ecclesiologia che il Concilio Vaticano II ha superato e
le chiese cristiane erano profondamente divise. E’ stato percepito
come esaltazione della persona di Maria al di fuori della dinamica
ecclesiale e cristologia. Il Concilio insegna che Maria va amata in
Cristo e nella Chiesa. Cerchiamo, nel limiti di tempo di
un’omelia, di vedere l’assunzione di Maria com’è oggi nella
fede cristiana. Ricordiamo che la fede non è aderire al passato ma
rischiare la nostra vita nella direzione che il dogma indica.
Nelle
due ultime domeniche abbiamo meditato sulla fede. Oggi abbiamo
sentito il saluto di Elisabetta a Maria: Beata colei che ha
creduto che saranno compiute le cose che sono state dette a lei dal
Signore. La Parola indica una direzione e Maria la compie nella
vita.
Il
prefazio dice: Dio ha rivelato il mistero della salvezza in Maria,
primizia e immagine della Chiesa. La donna descritta nella prima
lettura rappresenta la comunità cristiana minacciata dal drago, cioè
da Satana e da tutte le potenze negative che pretendono di dominare
la storia. La donna gridava per le doglie e il travaglio del
parto. Nella passione viene partorito il Risorto, che poi è
rapito verso Dio e verso il suo trono, cioè nella risurrezione e
nella gloria. La Chiesa fugge nel deserto dove Dio la protegge dalle
minacce di Satana. Dentro le contraddizioni e le persecuzioni la
Chiesa è assicurata dalla forza di Dio. La profezia si conclude con
il canto di lode, in cui si proclama che si sono compiuti il regno
di Dio e la potenza del suo Cristo. Dio ha vinto il diavolo e il
mondo.
Il
vangelo ci rimanda all’incarnazione, inizio della nuova alleanza.
La visita ad Elisabetta è legata intimamente alle parole
dell’angelo che annunciano la maternità di Elisabetta.
I
due bambini portati in grembo dalle due donne segnano l’inizio
della redenzione.
Maria
è la credente che porta in grembo il Messia e la comunità
cristiana è la credente che porta in grembo il Risorto. Alla Chiesa
Dio ha donato Gesù e lo Spirito santo, per portarla alla pienezza
della verità e della grazia. Come Elisabetta ha riconosciuto la
maternità di Maria, così ogni uomo deve riconoscere la maternità
della Chiesa.
Il
dogma dell’assunzione indica alla Chiesa la direzione del cammino
ecclesiale ed invita a una incessante ascensione spirituale.
L’assunzione di Maria non è un evento speciale riservato a lei,
quasi un premio alla sua fede e alla sua obbedienza.
Non
è aggiunta o sovrapposizione alla sua vita ma è il compimento del
suo cammino, che è stato una continua ascesa verso Dio per compiere
il disegno della salvezza.
E’
anche il termine che ognuno di noi è chiamato a raggiungere,
sollevandosi dalla condizione umana e mortale. Siamo chiamati a
santificare tutte le cose, per realizzare lo stesso compimento di
Gesù, di Maria e della Chiesa.
Il
prefazio dice ancora: in Maria Dio ha fatto risplendere per il
suo popolo un segno di consolazione e di speranza. La liturgia
oggi canta: grandi cose ha fatto in me l’onnipotente. Sono
le grandi cose che Dio ha fatto e continua a fare nella Chiesa.
Oggi
non siamo chiamati a celebrare una liturgia celeste, cioè a
festeggiare Maria gloriosa fra gli angeli e i santi. Sappiamo troppo
poco di questa realtà celeste e siamo ancora mortali e peccatori
per farne parte. Celebriamo invece nella gioia una liturgia
terrestre in cui ringraziamo Dio di averci dato in Maria
consolazione e speranza, per continuare a dire il sì della fede al
futuro che egli vuole preparare alla Chiesa.
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ORDINARIO
21 A
2005
* Omelia
tenuta dal diacono Elio Tardivo *
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Isaia,
nella prima lettura annuncia che Shebna, primo ministro di Ezechia,
sarà rovesciato e sostituito
con Eliakim perché il suo lusso sfrenato e la sua superbia lo hanno
allontanato da Dio.
Egli ha costruito difese contro la minaccia dei nemici, ma ha
dimenticato che la difesa del Paese e la salvezza de! popolo viene da Dio. Perciò
Dio stesso gli toglierà il potere per darlo a Eliakim.
L'investitura
del nuovo primo ministro, descritta con i simboli della tunica,
della cintura e della
chiave, sta a indicare che coloro che sono preposti alla guida del
popolo di Israele devono
promuovere e tutelare l'alleanza con Dio ed essere fedeli a questo
mandato. In caso
contrario. Dio toglie a loro il potere conferito.
La
profezia di Isaia ci rimanda all'episodio raccontato da Matteo. A
Cesarea di Filippo Gesù pone
ai discepoli una domanda decisiva:
«Chi dice la gente che sia il figlio dell'uomo?»
Al massimo la gente ha capito di lui che fosse un
profeta. A quel tempo la profezia non esisteva più in Israele. Il popolo sentiva il peso di
questo silenzio di Dio ed attendeva la venuta di qualche profeta. Era ancora viva l'attesa di
uno che instaurasse il regno messianico. Ma le speranze popolari erano di un re messia
liberatore politico. Speranze umane, dettate dalla carne.
«Ma voi, chi dite che io sia?» Gesù ritiene inadeguata la risposta della gente e
dai discepoli
ne esige una diversa, che si contrapponga a quella dei desideri
umani. La domanda
è fatta in un momento importante. Tutti coloro che hanno ascoltato
la sua parola e
hanno visto i segni e i miracoli sono in grado di accoglierlo e di
dare la risposta.
La
sinagoga giudaica resta inflessibile nella sua ostinazione a non
riconoscere il Cristo. Viene
perciò abbandonata a se stessa. Dice Giovanni nel prologo: «E'
venuto nella sua casa e
i suoi non l'hanno accolto. A quanti però lo hanno ricevuto, ha
dato il potere di diventare figli
di Dio» (1,11-12). Dalla confessione di Pietro, i! Regno dei cieli,
promesso dal Padre e fondato
da Gesù, prende forma nuova nella Chiesa.
Pietro,
a nome degli apostoli, riconosce in Gesù il Messia inviato dal
Padre, colui che porta a
compimento le promesse fatte ad Israele e il figlio di Dio, quello
vivente. Il Vivente è il nome
dato a Dio nell'AT in sostituzione di Jahvè. A Gesù è
riconosciuta l'origine divina.
Gesù
ritiene soddisfacente la risposta e sottolinea che la confessione
solenne di Pietro è un'intuizione
che non può derivare dalla fragilità umana {dalla
carne e dal sangue), ma è suggerita
direttamente dal Padre, è un particolare dono di Dio. Per questo lo
dichiara beato e
lo stabilisce come prima pietra su cui edificherà la sua Chiesa,
mettendogli in mano le chiavi
del regno dei cieli. La fede in Cristo Signore dona la dignità di
figli di Dio e fonda il potere
ministeriale. Simone d'ora in poi si chiamerà «Kefa, Roccia»,
Pietro. Il mutamento del
nome segna per lui la chiamata verso un futuro appena incominciato.
Ci
vorrà del tempo e molta fatica prima di comprendere e accogliere il
mistero di Cristo. La morte
in croce sarà per lui e per i discepoli un evento difficile da
accettare.
Oggi
Gesù pone a noi le stesse domande. Nonostante secoli di
cristianesimo, molta gente sa
poco o nulla di lui.
Dopo
anni di predicazione dell'Evangelo, di celebrazione dei sacramenti e
di vita ecclesiale, alcuni
cristiani vivono come se lui non ci fosse. Altri gli preferiscono la
devozione ai santi, ignorando
la sua persona. Altri ancora si attardano in discussioni
inconcludenti. Dubitano della
sua divinità e della sua missione. Lo considerano una figura del
passato. Identificano il Vivente con uno che è morto, ne onorano il sepolcro, ma non credono
nella Risurrezione. Molti si dicono cristiani, ma la loro appartenenza è solo sociologica,
non di fede.
Gesù
insiste: «Ma voi, chi dite che io sia?» Noi che diciamo di
lui? Non siamo più noi a interrogare
lui, ma è lui che interroga noi. Siamo noi ad essere messi in
discussione. La domanda
è stringente ed esige la risposta giusta perché decisiva. O
crediamo in lui e saremo
pietre vive che andranno ad edificare la sua Chiesa, o saremo
tagliati fuori dal futuro
che Dio ha preparato per gli uomini alla fine dei tempi. Gesù
avverte che la risposta è
un dono di Dio, non deve essere umana. Va cercata nel silenzio e
data dopo aver ascoltato
lo Spirito.
Lasciamoci
condurre dallo Spirito e capiremo che la vita di Gesù continua in
noi. I nostri occhi
si apriranno allo spezzare del pane e impareremo a riconoscerlo in
ogni liturgia domenicale.
Anche la nostra comunità potrà professare con Pietro in Spirito e
verità: «tu sei il
Cristo, il Figlio del Dio vivente».
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ORDINARIO
22 A
2005
Il
brano del vangelo oggi inizia così: da allora Gesù cominciò a
mostrare ai suoi discepoli. Da allora, cioè a partire dalla
confessione di Pietro che abbiamo ascoltato domenica scorsa, Gesù
inizia una rivelazione nuova, la più importante e la più
sconcertante. E’ un momento fondamentale per Gesù e i discepoli.
Gesù
dice che Pietro è beato, perché la fede gli viene da una
rivelazione del Padre. Niente di straordinario. Gesù stesso ha
insegnato che conosce il Figlio solo colui a cui il Padre lo rivela.
Tutti coloro che credono in Gesù lo fanno perché il Padre lo ha
loro rivelato. La roccia sulla quale Gesù fonda la sua Chiesa,
contro la quale gli inferi non prevarranno, è la fede che Gesù è
il Cristo, il figlio di Dio, quello vivente.
La
fede professata da Pietro è straordinaria. Gesù a questo punto può
mostrare che è necessario per lui andare a Gerusalemme e soffrire
molte cose dagli anziani e sommi sacerdoti e scribi ed essere ucciso
e il terzo giorno risorgere. Gesù non lo dice solo ma lo mostra nei
fatti: inizia il cammino verso Gerusalemme. E quello che rivela
impegna tutti i suoi discepoli, che sono chiamati a rinnegare se
stessi, a prendere la propria croce e a seguirlo. Per quale motivo:
per salvare la vita bisogna perderla.
Questa
rivelazione contiene sapienza umana. Sappiamo che la vita è come
una candela che dà luce e riscalda consumandosi. Se non si consuma
non illumina, cioè è inutile.
Questa
rivelazione contiene sapienza divina. Gesù assicura che chi perde
la sua vita per la causa del Regno la troverà. Chi crede che Gesù
è il figlio del Dio vivente, dona la vita alla causa sua e vive per
lui. Gesù vive per lui e lo farà partecipe della sua gloria.
Essere
uniti in Cristo come tralci all’albero, o come la sposa allo
sposo, significa divenire con lui un corpo solo e partecipare alla
stessa sorte. E’ la vocazione del discepolo.
Come
reagisce Pietro a questo annuncio? Seguiamo il testo greco che è
diverso dalla traduzione ufficiale. Pietro prende Gesù con sé.
Pietro cerca di convincere Gesù, fra loro due soli. E’ la
correzione fraterna nel segreto, nella quale si può correggere o
essere corretti, ma non c’è mai lo sconfessare l’altro alle sue
spalle e quindi neppure l’essere sconfessati. Pietro rimprovera
Gesù con molto tatto e rispetto: “Dio sia misericordioso con te,
Signore. A te non sarà affatto così”. Pietro vorrebbe evitare a
Gesù la passione e la morte. Anche qui, niente di grave. Chi di noi
desidera la passione e la morte? Quante volte preghiamo per star
bene e per non morire, per noi o per le persone care? Anche Gesù ha
pregato il Padre di evitare la morte. Il problema è un altro per
tutti: pensare le cose di Dio o degli uomini. Chi ha fede in Gesù
figlio di Dio vivente pone la vita sul piano divino, che dà un
altro esisto alla vita umana, quello della risurrezione e del regno
dei cieli. Se ci poniamo su questo piano, pensare le cose degli
uomini, come fa Pietro, diventa dividersi da Dio, che pensa altre
cose di noi. Di qui il nome di Satana che Gesù dà a Pietro. Egli
è di ostacolo al cammino che Gesù deve fare, come aveva detto.
Pietro
deve a sua volta mettersi dietro a Gesù e non davanti a lui, farsi
cioè discepolo.
Il
desiderio di salute e di vita noi possiamo coltivarlo se non impedisce il compiersi per noi
e per il mondo di quello che pensa Dio. Gesù nell’orto ha
aggiunto alla sua preghiera: “sia fatta, o Padre, la tua volontà”.
Anche l’AT ha conosciuto questa fede.
Oggi
abbiamo la confessione di Geremia profeta. Mi hai sedotto Signore e
io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso. Ma
poi la tua parola che annunziavo mi attirava persecuzione e
sofferenza ogni giorno. Mi proponevo di non pensare più a te e di
non parlare più in tuo nome, ma nel mio cuore c’era un fuoco
ardente che non potevo contenere. Pietro ha tentato di correggere
Gesù, ma è rimasto con lui.
In
fondo è questo importante in ogni discepolo: l’unità profonda
con Gesù che non viene mai meno nonostante la debolezza, l’unità
che è tipica di ogni grande amore. Si va dietro a Gesù fino
perdere la vita per lui come si sta con la persona di cui si è
innamorati.
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ORDINARIO
23 A
2005
La
parola oggi ci educa all’amore del prossimo. S. Paolo scrive ai
Romani che l’amore vicendevole è un debito. Il prossimo ne ha
bisogno per vivere, come ha bisogno di aria e di acqua. Tutti i
comandamenti possono essere detti così: ama il prossimo tuo e te
stesso.
Dio
infatti ha bisogno di questo per costruire il suo regno, che è
giustizia, pace e gioia.
Geremia
e Gesù insegnano a prendersi cura del prossimo quando sbaglia.
Geremia dice che dobbiamo distogliere l’empio dal male in nome di
Dio, cioè con la sua parola.
Se
non lo facciamo, siamo responsabili della sua rovina. Anche Gesù
insegna che la correzione fraterna mira a guadagnare il nostro
fratello; non guadagnarlo è perderlo.
Oggi
siamo lontani da questo insegnamento e quindi è un modo di amare
molto difficile.
Nel
nostro tempo il valore più stimato e rivendicato è la libertà. A
ragione, perché non c’è amore e gioia senza libertà. Ma la
libertà oggi è percepita come un diritto assoluto che non può
essere disturbato neppure dai diritti degli altri, neppure degli
innocenti. Pensiamo a: prepotenza dei poteri forti, intolleranza,
divorzio, aborto e terrorismo, realtà molto diverse tra loro ma che
hanno in comune la rivendicazione della propria libertà. Vediamo
quanto è difficile anche per genitori, insegnanti, educatori e
parroci correggere le persone verso cui hanno delle responsabilità;
c’è sempre la possibilità che le persone si rivoltino contro,
accusando, che si apra una causa civile o penale, o anche di morire.
Ultimamente
siamo arrivati alla paura che una persona possa ribellarsi,
uccidendosi.
Che
fare in questa situazione difficile? Lasciar cadere la parola di
Dio, lasciare che tutti facciano quello che vogliono? Tenersi alla
larga da impegni sociali, scolastici, religiosi? La parola che
abbiamo ascoltato è troppo chiara per non prenderla sul serio e le
storie che la bibbia racconta altrettanto; pensiamo al Battista, a
Gesù, agli apostoli, a Stefano e tanti santi, divenuti martiri per
il coraggio con cui hanno detto la verità per salvare i fratelli.
Gesù
dice anche ai discepoli che Dio ha affidato loro un potere di legare
o di sciogliere che avrà continuità nel cielo. Sciogliere i
fratelli dal laccio in cui sono imbrigliati, significa renderli
liberi per il cielo, legarli con testimonianze contrarie al vangelo
o per la nostra paura a
correggerli, significa anche ostacolare il loro cammino verso il
cielo.
In
particolare con la nostra santità salviamo i fratelli e con il
nostro peccato li perdiamo.
Matteo
indica anche il percorso ecclesiale per ricondurre il fratello
all’amore di Dio.
E’
una correzione progressiva che rispetta la libertà ma aumenta la
pressione positiva. Riprendilo
fra te e lui solo. E un modo perché la correzione non assuma i
toni di un giudizio. Nel dialogo si può correggere ed essere
corretti, riportare i fatti alla loro verità, dissolvere malintesi,
constatare la non intenzionalità o responsabilità, offrire
solidarietà.
Prendi
con te uno o due fratelli come testimoni, più sereni ed
imparziali. Evita di interpretare la questione in modo troppo
personale e aumenta la forza di persuasione.
Dillo
all’assemblea. E’ la comunità locale intera e quindi il
popolo, il ministro e gli organi di partecipazione che la
presiedono. L’assemblea è l’ultima possibilità offerta sia a
chi corregge sia a chi viene corretto. Ultima a cui accedere e
ultima che può salvare.
La
comunità mette insieme più punti di vista e offre maggior garanzia
di verità e carità.
Sia
per te come il pagano e il pubblicano. Il pagano indica uno che
non fa parte della Chiesa; ritenerlo come pagano significa quindi
non mantenere legami, perché possono in qualche modo inquinare la
verità e compromettere la testimonianza.
Il
pubblicano indica invece il peccatore; ritenerlo tale significa
amarlo con amore ancora più intenso, come faceva Gesù, conosciuto
come amico dei pubblicani e dei peccatori.
Gesù
termina esortando alla preghiera ecclesiale, il segreto per vivere
le cose difficili.
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ORDINARIO
24 A
2005
Domenica
scorsa la parola ci ha educato all’amore del prossimo, in
particolare al grande amore di chi corregge il fratello che pecca.
Oggi ci educa a perdonare il fratello.
Gesù
insegna che il perdono deve essere generoso, o senza misura, e
provenire dal cuore.
Racconta
la parabola che abbiamo ascoltato. Sappiamo che le parabole parlano
a due livelli: quello del racconto umano, facile da capire, e quello
del mistero che il racconto vuole rivelare. Quest’ultimo è solo
lo Spirito che lo rivela. Bisogna chiedere di capire.
Nei
regni del mondo antico e dell’impero romano vigeva questa prassi
giuridica: chi non poteva pagare i debiti doveva risarcire il
creditore vendendo i suoi beni, e se non bastavano, vendendo se
stesso e i propri familiari come schiavi.
Era
un sistema per sollecitare il creditore a fare ogni sforzo per
saldare il dovuto.
La
parabola parla di uno schiavo mettendo in risalto che è una persona
distante dal re.
Il
re aveva diritto di vita e di morte su di lui, mentre lo schiavo non
aveva diritti sul re.
Il
re fa applicare la legge. Lo schiavo lo supplica e il re prova
compassione di lui, lo ama e gli condona il debito. Così lo schiavo
ha salva la vita, la famiglia e i
beni.
In
questa prima scena risalta la generosità del re. Egli prova
compassione per uno schiavo, rinuncia a una somma ingente, perché
non dilaziona il debito ma lo estingue.
Lo
schiavo diventa protagonista della seconda scena raccontata nella
parabola.
Egli
trova uno di coloro che erano come lui schiavi del re e che ha un
debito con lui.
Egli
verso di lui applica la legge, lo getta in carcere, nonostante che
fosse pari a lui in dignità e che si trattasse di un debito molto
più piccolo. Agisce in modo ingiusto?
Non
è ingiusto perché non viola la legge in vigore. Anche il re in un
primo momento aveva agito così con lui. Il conservo però lo aveva
supplicato come egli aveva supplicato il re. C’è una novità: la
confessione umile che il debitore fa ottiene la misericordia.
Il
re aveva stabilito un comportamento nuovo rispetto alla legge
rivelando così che il suo regno era diverso dagli altri. La legge
era diversa e lo schiavo era tenuto ad imitare il re.
L’insegnamento
della parabola è questo. Il regno di Dio si regola sul
comportamento di Dio e non secondo le leggi umane, siano esse giuste
o sbagliate.
La
giustizia del regno domanda che tutto vada secondo l’amore di Dio
che perdona.
Il servo non si era accorto che la legge del regno era la
compassione. Anche noi possiamo perdonare senza che il perdono sia
un’esperienza di amore e di confessione.
Se
ci lasciamo prendere da questo amore ne veniamo trasformati e
diventiamo capaci di accogliere e amare come siamo stati accolti e
amati da lui. Alla base del perdono non sta l’esame di coscienza o
il pentimento ma l’esperienza di essere stati perdonati per primi.
Il
perdono va liberato da ogni complesso di colpa o nevrosi, angoscia o
tormento.
Il
Signore con il fango della nostra vita può fare i mattoni per
costruire un edificio nuovo. Chi
non accetta il perdono, non può partecipare al Regno, che è
fondato su questo amore santo, forte e generoso. Si comporta secondo
la legge umana e sarà trattato secondo la legge umana e quindi
escluso. E’ possibile vivere oggi secondo l’uomo e vivere domani
secondo Dio? Guardiamo a come si comporta Dio nella storia della
salvezza. Gesù, dopo aver subito la persecuzione, il processo e la
passione, poco prima di morire crocifisso prega il Padre: perdona
loro perché non sanno
quello che fanno.
Sappiamo
che Gesù fa quello che vede fare dal Padre. Dunque egli perdona
come perdona il Padre e noi dobbiamo fare lo stesso.
Siamo
capaci di perdonare come Dio perdona in qualsiasi situazione della
vita?
Oggi
il non perdonare non è considerato e confessato come peccato e il
perdonare non è sentito come grazia e dono. E’ probabile che
predichiamo poco o male il perdono ed anche che non siamo abbastanza
umili da desiderare di essere come Dio. Chiediamo allo Spirito di
aiutarci a confessare il nostro bisogno, a perdonare e ad amare come
lui.
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ORDINARIO
25 A
2005
I
miei pensieri, dice Dio, non sono i vostri pensieri, anzi li
sovrastano quanto il cielo sovrasta la terra. La parabola degli
operai chiamati a lavorare la vigna lo dimostra.
Sono
operai che lavorano a giornata e accettano qualsiasi offerta di
lavoro per vivere e mantenere la famiglia. Il padrone di casa li
chiama a quattro ore diverse e dà loro la stessa paga, quella
concordata quando il padrone uscì a cercarli, insieme al mattino.
Egli adotta questo criterio: la paga corrisponde al bisogno di vita
prima che al lavoro svolto.
Ci
è stato più fortunato? I primi operai, quelli che avevano
sopportato il peso della giornata e il caldo mormorano contro il
padrone. In realtà la vera sofferenza è di coloro che attendono
tutta la giornata con la paura di non portare a casa il necessario
per vivere.
E’
fortunato chi ha il lavoro sicuro, non chi è disoccupato. Un
commediografo francese ha scritto questo racconto. “Attorno a S.
Pietro c’era ressa di gente in attesa del giudizio di Dio. Si
sparge la voce di un perdono generale, un’amnistia. Coloro che
avevano fatto tanti sacrifici per guadagnarsi il paradiso dicevano:
“Se avessimo saputo prima avremmo potuto divertirci anche noi come
loro”. E’ la teoria dei meriti. Faccio sacrifici ed opere buone
per mettere via dei meriti e guadagnarmi un posto alto in paradiso.
Il
paradiso è creato dall’amore e goduto da chi ama, non da chi ha
una religione gretta, nella quale Dio è colui che premia o castiga
e non è il Dio dell’amore.
La
parabola che chiamavamo del “figlio prodigo” metteva al centro
il peccato del figlio minore che mettendosi in proprio aveva fallito
mentre il maggiore era rimasto in casa a lavorare, anche se non
disponeva neanche di un capretto per far festa con gli amici.
Era
una lettura interessata a mantenere la giustizia secondo i criteri
umani.
In
realtà la parabola parla del grande amore di Dio per tutti i suoi
figli e rivela che Dio gode l’abbraccio dei peccatori che
ritornano e soffre del rifiuto dei figli casalinghi.
Diceva
un educatore: “Essere cristiani è un’avventura bella; se non ne
siete convinti andate nel mondo e divertitevi, se vi sarà possibile
essere contenti senza il vangelo”.
I
genitori fanno fatiche innumerevoli per crescere i figli e hanno
anche timore, perché li vedono crescere in un mondo che ha poco
rispetto per loro, ma sono contenti, perché è sempre bello essere
fecondi e crescere una vita dalla propria vita.
Partecipano
alla gioia di Dio che non si è ancora stancato del matrimonio,
della famiglia e del mondo. Un sacerdote ripeteva: “Se, per
assurdo, alcuni minuti prima di morire mi dicessero che il vangelo
era tutta una favola, non avrei nessun rimpianto per quello che ho
vissuto. La mia vita è stata bella, non poteva essere più
bella”. E’ una fortuna essere cristiani dal primo giorno della
vita, esserlo da ragazzo e da giovane, lavorare nella missione con
gli altri con generosità e con gioia, avere davanti gli orizzonti
del vangelo.
La
parola oggi ci invita tutti ad un esame di coscienza, soprattutto
coloro che sono caduti nella religione civile, di chi sta con un
piede dentro e uno fuori, per esigere i diritti e negare i doveri.
Oggi concludiamo il ritiro in apertura del nuovo anno pastorale.
Viene
offerta a tutti una opportunità nuova. Poniamoci queste semplici
domande:
Pensiamo
secondo Dio o secondo gli uomini? Accettiamo che la parrocchia è
fatta di persone chiamate e amate dal Signore ma che restano tutte
piccole e peccatrici?
Ci
muoviamo vedendo che la parrocchia fa fatica a fare quello che il
Signore vuole?
Ci
facciamo vedere solo per ricevere o anche per dare? Sappiamo che il
vangelo è bella notizia: perché non lo sposiamo decisi e gioiosi
se è bello? Cominciamo dalla preghiera in questa eucaristia e dal
renderci conto dei problemi e decidere insieme la pastorale.
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0RDINARIO
26 A
2005
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La
parabola che abbiamo ascoltato è semplice. Impegnativo è
applicarla bene alla vita.
Gesù
è nel tempio e sta insegnando. Racconta una parabola in risposta a
una domanda dei sommi sacerdoti e degli anziani del popolo,
l’autorità religiosa ufficiale. Un uomo ha due figli e li manda a
lavorare nella vigna. Uno risponde: Non voglio! In seguito si pente
e và. L’altro risponde: Io vado, Signore. Ma non và. Gesù
interpella coloro che lo ascoltano: Chi dei due ha fatto la
volontà del padre? Lasciamoci interpellare anche noi.
Rispondere
no al padre nel mondo antico era molto grave. Significava mettere in
discussione l’autorità paterna su cui poggiava la vita familiare
e sociale. Da qui nasce la decisione del figlio, che prima aveva
disobbedito al Padre, di andare a lavorare la vigna.
E’
sempre sbagliato rispondere no a Dio. Ma la storia della Chiesa è
piena di persone convertite; che avevano detto no e poi si sono
dedicate con generosità al regno di Dio, che sono diventate sante e
hanno resistito, anche nelle persecuzioni, fino al martirio.
L’altro
figlio invece mostra di riconoscere e riverire il padre. Infatti lo
chiama Signore e gli dice prontamente: Io vado! Però riconosce
l’autorità del Padre a parole, ossequiente alla mentalità del
suo tempo ma non va a lavorare la vigna del Padre.
Anch’egli
avrà buona compagnia nella storia della Chiesa. Già Gesù
insegnava: “Non chi mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno
dei cieli, ma chi fa la volontà del padre mio, quello dei cieli” (7,21).
La religiosità che si ferma alle parole può avere sfumature
diverse. C’è la religiosità devozionale e sentimentale che non
entra nelle lotte della vita, c’è quella che esprime belle
celebrazioni, momenti di comunione ed anche propositi convinti ma
che non esce dalla porte della chiesa. C’è anche la religiosità
che scambia la teologia con la mentalità del tempo o la missione
con l’onore e la carriera, senza preoccuparsi se vive il vangelo o
se sta percorrendo le strade che portano ad affermare se stessa.
Quante
volte i cristiani, chiusi nelle loro sicurezze, hanno ostacolato la
libertà umana e la giustizia di Dio, solo perché chi le proponeva
non era della cerchia cristiana ossequiente.
Compiere
la volontà di Dio non significa essere ossequienti agli uomini, per
essere onorati da loro, ma affermare nella vita le cose che Dio ci
ha rivelato, quando le ha fatte vivere nel nostro cuore e ce ne ha
dato prova sicura nella nostra storia personale con lui.
Arriva
il momento nella vita in cui dobbiamo decidere se è importante Dio
o se siamo importanti noi e le nostre ragioni. La parabola
raccomanda innanzi tutto la coerenza fra confessare la fede e
compiere la volontà del Padre. I pubblicani e le prostitute hanno
creduto al Battista, che era venuto nella via della giustizia, e
precedono i sacerdoti e gli anziani di Israele nel regno dei cieli,
cioè danno testimonianza a Dio convertendosi.
Il
cristiano che non è disposto a modificare le proprie convinzioni
davanti alla parola profetica che annuncia la giustizia di Dio, che
è sempre retta, non è degno della salvezza.
Bisogna
riconoscere i propri limiti e, a mano a mano che il Signore ci
rivela quello che non sapevamo del suo regno, rivestirci di esso.
Paolo scrive che Gesù non ha ritenuto la sua uguaglianza con Dio come un
tesoro da conservare gelosamente, per non perderlo, ma se ne è
spogliato e lo ha speso, per fare nella vita terrena e nella
risurrezione la giustizia del Padre. Che dire dei cristiani che
hanno già fissi i canoni di fedeltà in cui rispecchiarsi e non
lasciano spazio a quello che Dio vuole ancora inventare per il
futuro?
Il
profeta Ezechiele afferma che chi desiste dall’ingiustizia e
agisce con giustizia fa vivere se stesso. E’ un invito a
riconoscere i nostri limiti per convertirci continuamente al disegno
di Dio, a passare dal dire al fare, dal cercare gratificazioni al
dare la vita per Dio.
All’inizio
dell’anno pastorale il Signore ci invita a giocarci con lui e con
il suo regno.
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ORDINARIO
28 A
2005
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I
cristiani con l’iniziazione entrano nel regno di Dio. Che cos’è il regno di
Dio?
Gesù
lo presenta con delle parabole, similitudini che forniscono tracce per una
ricerca che continua tutta la vita. Un re fa un banchetto di nozze per il suo
figlio. l’AT presenta l’alleanza come le nozze tra Dio e il suo popolo.
Dio, scrive Isaia, prepara un banchetto sul monte con cibi e vino raffinati.
E’ un banchetto di festa, perché gli uomini sono liberati da dolore, vergogna
e morte per sempre. E chi partecipa al banchetto canta: Ecco il nostro Dio in
cui abbiamo sperato! Rallegriamoci ed esultiamo per la salvezza.
Giovanni
inizia il suo vangelo con la festa di nozze di Cana di Galilea, dove presenta
Gesù come lo sposo che garantisce la festa nuziale piena. Quello che l’AT
preannunciava si compie nel NT. Dio è sposo del suo popolo nel mistero di Gesù
e della Chiesa.
Nella
festa per un matrimonio umano Gesù manifesta la sua gloria di sposo della
Chiesa e i suoi discepoli credono in lui; credono cioè che egli è lo sposo ed
essi la sposa.
La
rivelazione termina con una visione descritta nell’Apocalisse: Gerusalemme
scende dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. E
lo Spirito e la sposa dicono: Vieni, Signore Gesù! Siamo già nel regno di
Dio e l’eucaristia è il banchetto delle nozze fra Gesù e la Chiesa, anche se
avviene ancora nella fede e nel sacramento.
E’
naturale domandarci: consideriamo il nostro essere cristiani come festa di nozze
e l’eucaristia come anticipazione e primizia del banchetto gioioso della
salvezza?
La
fine della nostra storia sarà una tomba o una foto e per di più provvisorie
anch’esse?
La
parabola descrive due scene antitetiche: nella prima Dio manda i suoi servi a
chiamare gli invitati a nozze che però non vogliono partecipare per curare il
lavoro e i propri affari. Ci sono poi anche coloro che perseguitano e uccidono
gli inviati. Non dimentichiamo i martiri cristiani. Nel secolo scorso sono stati
circa 400 milioni. Ci interessiamo a benessere, cultura e ricchezza e non
prendiamo tempo per sognare e per cercare le altezze e le profondità che Dio ha
posto nella vita. Non mancano anche oggi genitori che manifestano sorpresa
quando i figli sono entro i giri della droga e cose simili. Credevano di aver
dato tutto quando assicuravano soldi, benessere e libertà e non hanno saputo
appassionarli ai valori e ai sensi alti e profondi che Dio ha nascosto nel campo
della vita. Se essi non interessano più ma vengono marginati e derisi non ci
resta che la terra.
Nella
seconda scena Dio manda per le strade a chiamare quanti vi si trovano, gente che
non hanno affari da curare e benessere da cercare e che riempiono la sala del
banchetto. Ma anche a loro è chiesto qualcosa per partecipare: la veste
appropriata. Qual’è?
In
Ap 19,8 si legge: Rallegriamoci e diamo gloria a Dio, perché sono giunte le
nozze dell’agnello e la sua sposa ha preparato se stessa; le fu data un aveste
di lino puro splendente; e la veste di lino sono le opere giuste dei santi.
Dio
non chiama solo ma fornisce anche la veste adatta. La parola di Dio che invita
suscita la fede e la conversione. La grazia di Dio e l’obbedienza dell’uomo
alla vocazione operano la trasformazione che rende partecipi alla festa nella
libertà e nella gioia.
La
chiamata comprende il dono della veste ma chiede di accoglierla e indossarla.
Il
banchetto è sempre “nozze”, momento di un’alleanza e di festa e richiede
la libertà e l’amore di chi vi partecipa. La festa non è mai regalata,
chiede sempre partecipazione.
Siamo
all’inizio di un anno pastorale. Non si vede gran movimento di adulti.
La
parola di Dio è per noi oggi. Davvero siamo in ricerca di Dio e della salvezza?
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ORDINARIO
29 A
2005
Abbiamo
iniziato l’anno pastorale: il ritiro, il catechismo per bambini e ragazzi, la
catechesi e il primo annuncio per adulti e terza età e l’attività dei
gruppi. Questa settimana faremo le iscrizioni al catechismo, con l’incontro
tra i genitori e i catechisti.
Oggi
commento la seconda lettura, l’inizio della prima lettera di Paolo alla
comunità cristiana di Tessalonica, la capitale della Macedonia. In essa c’era
una sinagoga dei Giudei e Paolo vi aveva annunciato Gesù Cristo nell’estate
del 50. Alcuni giudei, un buon numero di greci e di donne della nobiltà
aderirono al vangelo. Ma altri giudei, ingelositi, accusarono Paolo presso i
giudici di fare politica e in particolare di presentare Gesù come un re
antagonista a Cesare. La pagina evangelica odierna testimonia quanto era
pericoloso, anche ai tempi di Gesù, parlare di religione e politica. Chiesa e
stato.
Gesù
non voleva il titolo di re. Gli verrà dato sulla croce, quando non aveva più
una valenza politica. Paolo deve fuggire di notte da Tessalonica e circa tre
mesi dopo, quando si trova a Corinto, scrive a questa comunità la sua prima
lettera. E’ pericoloso soprattutto per la contestazione. Cosa diventerà
l’autorità quando non dialoga?
Non
posso ora farvene una presentazione adeguata ma mi soffermo su alcune cose che
sono valide sempre, anche per noi che, all’inizio di un nuovo anno pastorale,
abbiamo bisogno di riscoprire la bellezza e l’importanza di essere una comunità
cristiana.
Rendiamo
grazie a Dio, sempre, a motivo di tutti voi. E’ il primo sentimento che
Paolo manifesta e deve essere il sentire primario di una comunità cristiana. La
relazione che lega i cristiani tra loro è dono di Dio. Sentiamo il bisogno di
ringraziarlo di averci chiamati a vivere in questa comunità cristiana. A
motivo di tutti voi, scrive Paolo, senza distinzioni fra persone, nelle cose
belle che godiamo e nelle prove che sopportiamo.
Se
è viva la riconoscenza a Dio, non ci fermiamo di fronte alle difficoltà, alle
fatiche, alle incomprensioni o ai contrasti che la vita comunitaria comporta. Se
non siamo attivi nella comunità significa che non sentiamo che il farvi parte
è comunque un dono del Signore.
Ricordiamo
voi, l’opera della fede, la fatica della carità e la pazienza della speranza.
Nella
vita della comunità cristiana sono in azione le tre virtù teologali.
Paolo
presenta, di ognuna, una qualità legata alle condizioni difficili della
testimonianza.
L’opera
della fede. La fede è un opus, un’opera da costruire, una fatica da
portare, una missione da svolgere, un cammino che impegna. La fede non è un
modo di pensare, una ideologia, una filosofia che ispira la vita ma nello stesso
tempo che è fuori di essa.
E’
accettazione nei fatti della redenzione di Gesù Cristo e dell’opera dello
Spirito.
Fede
è riconoscere il Crocifisso-Risorto e imitare queste due dimensioni di vita.
Il
modo con cui partecipiamo o non alla vita della comunità manifesta il tipo di
fede che professiamo: è quella operosa di Paolo o quella gratificante che si
cerca oggi?
La
fatica dell’amore. Oggi appare con evidenza che amare è faticoso. Esempi
sono le divisioni nella famiglia, le ingiustizie, le nuove forme di schiavitù e
di violenza.
Nella
comunità serve l’amore generoso, descritto da Paolo in 1Cor 13: La carità
non è invidiosa, non si vanta, non manca di rispetto, non cerca il suo
interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della
verità; tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. E’
l’amore che occorre quando le prove si fanno più forti.
La
pazienza della speranza. Per Paolo la speranza nasce dalle tribolazioni
sopportate. Noi ci gloriamo nelle tribolazioni perché in esse si matura la
speranza che non delude.
Il
vangelo è annunciato a parole e con la testimonianza e con la potenza dello
Spirito.
Nell’eucaristia
confrontiamoci seriamente con questa parola del Signore.
Abbiamo
una vita cristiana viva e la testimoniamo? Ci fidiamo di ciò che compie nella
comunità lo Spirito, potenza di Dio nella nostra debolezza? L’inizio del
nuovo anno pastorale è l’occasione per un impegno nuovo.
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ORDINARIO
31 A
2005
Gesù
sta parlando alle folle e ai discepoli e quindi a tutti. Parla degli scribi e
dei farisei. Malachia nella prima lettura parla dei sacerdoti e Paolo nella
seconda parla di se stesso.
Queste
persone oggi le chiamiamo ministri ordinati: papa-vescovi-presbiteri-diaconi, ed
anche operatori pastorali. E’una predica per loro e per tutte le persone che
sono in relazione con il loro ministero. Scribi e farisei siedono sulla
cattedra di Mosé.
Gli
operatori pastorali cristiani siedono sulla cattedra di Gesù, trasmettono la
sua parola..
E’
una vocazione e una missione, una grande dignità,
ma anche una responsabilità.
Come
devono esercitare il loro ministero e i fedeli come devono accoglierlo?
Sono
all’altezza del compito? Alcuni sì, altri no. Paolo è stato all’altezza
della vocazione.
Egli
scrive ai cristiani di Tessalonica che ha sempre desiderato partecipare a loro
con il vangelo anche la sua stessa anima, perché li ama. Predicare il vangelo
senza gravare su nessuno richiede fatica, sforzo e dedizione continua. Ci siamo
comportati in maniera pura, giusta ed irreprensibile con voi credenti,
come una madre cura e riscalda i suoi figli e un padre esorta, incoraggia,
scongiura a camminare in maniera degna di Dio.
E
i cristiani di Tessalonica hanno accolto la parola di Paolo come vera parola di
Dio.
Quando
il ministro non mette in luce se stesso ma lascia trasparire Dio allora il
Cristo viene riconosciuto dai fedeli per quello che è realmente e viene
accolto.
Non
sono cose evidenti agli uomini, perché il ministro può anche essere rifiutato
e perseguitato a causa della parola che annuncia. Paolo stesso ha dovuto fuggire
da Tessalonica, ma il dono della parola e dell’anima e il martirio hanno
portato molto frutto.
Il
profeta Malachia dice dei sacerdoti: voi siete stati di inciampo a molti con
il vostro insegnamento, avete usato parzialità di fronte alla Parola, avete
profanato l’alleanza.
I
singoli ministri possono insegnare cose fuorvianti. Ricordo che quando ero
responsabile della pastorale sociale e del lavoro della diocesi, in una
parrocchia alcuni operai avevano diffuso un volantino in cui era scritto che nel
vangelo usato dal loro parroco mancavano alcune pagine, perché non parlava di
giustizia e di solidarietà con i poveri e i deboli.
Quanti
ministri diffondono la dottrina sociale della Chiesa e quanti invece tacciono o
affermano cose che sono in contrasto con il vangelo? Manca la parola su questi
temi.
Gesù
in questa pagina denuncia alcuni comportamenti falsi dei ministri della
pastorale.
-
Dire e non fare; legare carichi pesanti e difficili da portare, imporli
sulle spalle degli altri e non toccarli noi. Il ministro deve annunciare il
vangelo, anche quello che egli non è capace di vivere, perché il popolo ha
diritto del pane per il suo cammino, ma deve sentirsi interpellato per primo
dalla parola e a disagio quando non è coerente con essa.
Gesù
dice che il cristiano deve tendere alla perfezione, e Paolo scrive che deve
raggiungere la piena maturità di Cristo. Chi non predica un vangelo esigente
non predica il vangelo. Occorre indicare chiaramente la meta, che è sempre alta
e lontana rispetto alla nostra vita, ma che deve prendere l’anima, innamorare
e incantare. Poi è chiesto di mettersi in cammino verso la meta usando
misericordia verso chi è debole e sostenendo chi viene meno e avendo pazienza
anche con noi stessi.
-
Apparire agli uomini, amare la prima sedia nel civile e nel religioso, i
saluti nelle piazze, in pubblico, ed essere chiamati dagli uomini con nomi che
attribuiscono onore.
Gesù
ne indica tre legati al ministero, degenerazioni della missione a cui si
dedicano. Maestro è solo Cristo; il ministro è fratello nella fede,
soggetto alla parola che annuncia.
Padre
è solo quello celeste; il cristiano vi partecipa in quanto manifesta la sua
paternità.
Guida
è solo il Cristo; il ministro lo è come strumento, nel quale si manifesta
Cristo.
Infine
la regola d’oro: il più grande di voi sarà il servo di voi. E’ la
misura di grandezza.
Nella
Chiesa tornano in voga titoli di onore gratuiti e non legati al ministero ma
all’ambizione umana. Gesù insegna: Tra di voi non sia così. Né i ministri né
i fedeli possono accettare o usare questi titoli. I discepoli vivono per la
gloria del Signore e per partecipare alla sua gloria.
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TUTTI
I SANTI
2005
La
liturgia oggi ci presenta tutti i santi, in particolare il popolo di Dio del
paradiso.
L’Apocalisse
aiuta a conoscere la vita eterna partendo dalla parola di Dio. Oggi abbiamo una
pagina della prima lettera di Giovanni e una di Mt. Ma tutta la Parola è
escatologica.
1
Un angelo ha in mano il sigillo del Dio vivente e lo imprime sulla fronte dei
servi di Dio, prima della fine del mondo. Che cosa significa quel sigillo?
Giovanni scrive che non è ancora rivelato quello che saremo in paradiso ma che,
fin d’ora, siamo figli di Dio. L’essere figli è segno del grande amore di
Dio per noi e sigillo di chi è nel popolo di Dio. La Chiesa è luce e lievito,
per camminare verso la meta e trasformare la vita in paradiso.
2
Appare una moltitudine immensa di ogni popolo e lingua. Sono avvolti in stole
candide, portano in mano la palma della vittoria e, insieme agli angeli e agli
esseri viventi, cantano un cantico di lode a Dio. La vita dei santi in paradiso
è innanzi tutto contemplazione e da essa nasce la preghiera di lode. Il
paradiso è il vedere la realtà in modo diverso: tutto è nato, redento e
santificato da Dio; tutto è molto bello, perché le cose negative non ci sono
più; tutto è segno della sapienza e potenza di Dio e noi godremo della vita
rendendo grazie a lui e amando noi stessi, l’umanità redenta e la creazione,
come cose belle che riempiono di senso e di gioia la vita. Chiunque ha questa
speranza purifica se stesso per divenire puro come Dio, per diventare perfetto
come il Padre e per raggiungere la piena maturità come la ha raggiunta Cristo.
3
Chi sono i santi? Coloro che sono passati attraverso la grande
tribolazione e hanno lavato le loro stole nel sangue dell’agnello. Le
beatitudini danno consolazione.
Partendo
dalle esigenze di figli di Dio in questo mondo arriviamo a conoscere il
paradiso.
L’esistenza
terrena di Gesù, di Maria e dei santi è stata seme dell’esistenza celeste.
Gesù
si riferisce all’esistenza dei discepoli, quelli che prendono la croce e lo
seguono.
Le
beatitudini indicano situazioni vuote, ma belle, perché Dio le riempie di
paradiso.
Elenchiamo
meditando queste esperienze cristiane per riconoscerle e valorizzarle.
La
povertà è beatitudine quando Dio la riempie non con le cose ma con il
regno dei cieli.
Quante
energie spendiamo per procurarci le cose, quante per vivere le cose di Dio?
L’afflizione
è beatitudine quando incontra la consolazione. Non è bene che l’uomo sia
solo: gli faccio un aiuto che gli sia simile. La vita è passaggio dalla
solitudine alla compagnia e apertura dalla dimensione personale a quella
comunitaria.
Quanto
valorizziamo la comunione ecclesiale come vita di famiglia, la famiglia di Dio?
La
mitezza è un bene quando eredita ciò che manca nella violenza: la
bellezza della vita.
Impariamo
da Gesù ad essere miti ed umili di cuore, per ereditare la terra di Dio?
La
mancanza di giustizia umana è beatitudine quando viene saziata dalla
giustizia di Dio.
Sappiamo
reagire all’ingiustizia umana creando l’aspettativa della signoria di Dio?
La
misericordia verso gli altri è beatitudine perché guadagna la
misericordia di Dio.
Impariamo
il perdono donandolo, chiedendolo, valorizzandolo come medicina della vita?
La
castità è beatitudine perché sarà riempita da nuove relazioni rese
possibili da Dio.
Superiamole
relazioni fusionali per vivere le relazioni vaste e profonde della vita?
Operare
la pace è beatitudine perché ci farà figli simili al Padre, che è il
dio della pace.
Siamo
generosi portatori di pace ovunque essa è venuta meno o può crescere di più?
La
persecuzione per la causa di Dio è beatitudine perché realizza il Regno
che crediamo.
Soffriamo
volentieri per la causa di Gesù per
partecipare della sua ricompensa?
La
festa dei santi ci collega naturalmente con i nostri defunti che partecipano o
attendono il paradiso e con tutti i credenti ancora in vita che sono stimolati a
raggiungere la santità.
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ORDINARIO
32 A
2005
Gesù
racconta una parabola prendendo spunto dalla celebrazione di un matrimonio.
Mt,
come Gv nel racconto di matrimonio di Cana di Galilea, allude a usanze del suo
tempo, note agli ascoltatori, per parlare in realtà del matrimonio fra Gesù e
la Chiesa.
Lo
sposo è annunciato da una voce che grida: “ecco lo sposo, andategli
incontro”.
Il
grido è rivolto a persone vergini che attendono lo sposo, per entrare con lui
nelle nozze. Sono la fidanzata dello sposo. La descrizione è volutamente
carente e noi siamo chiamati a personalizzarla, perché Gesù non intende
parlare di un matrimonio del suo tempo ma dell’alleanza sua e nostra. Ecco
alcuni elementi da meditare.
1
Dio fa un banchetto di nozze per il suo figlio ed invita l’umanità a essere
la sposa.
Qui
sulla terra è ancora fidanzata e Gesù viene ad incontrala a mezzanotte per
entrare insieme nelle nozze. Dio ci ha amato quando eravamo ancora peccatori.
Quando il creato è avvolto nelle tenebre simbolo del peccato la luce viene a
vincerle. Quando questo mondo finisce nasce il nuovo mondo. Il grido è di uno
più grande dello sposo, che sa presentarlo; è la parola e la volontà di Dio
che annuncia un nuovo evento per Dio e l’umanità. La fidanzata entra nelle
nozze portando la sua luce, la sua identità di sposa, perché il matrimonio sia
festa, assenza di peccato/tenebre e pienezza di amore/luce.
2
Le vergini prendono le lampade e olio nei vasi. Occorre anche la riserva
d’olio.
Nella
vita ci sono i tempi difficili e le notti oscure in cui domina il lato doloroso,
oscuro, frantumato e mortale dell’esistenza cristiana. C’è sempre un lato
notturno anche nell’esperienza cristiana, un tempo in cui la fede nelle cose
di Dio si affievolisce, la preghiera diventa un peso, il dubbio toglie luce alle
cose che prima apparivano belle, la carne vince lo spirito. Tutte le cose umane
sono soggette a cambiamenti radicali.
In
queste difficoltà solo la riserva di amore che la sposa ha con sé può darle
la forza di accompagnare lo sposo alle nozze. L’amore è come la Sapienza di
cui parla la prima lettura. Ci alziamo di buon mattino, la troviamo seduta alla
sua porta, la contempliamo e camminiamo con lei nella giornata. Bisogna ogni
mattina disporre della sapienza, della riserva di amore per la giornata. La
preghiera del mattino è importante.
Le
vergini stolte dicono alle prudenti: “dateci del vostro olio”.
L’amore non si può chiedere in prestito o in regalo, non si può prestare o
regalare, né comprare o vendere.
Ognuno
deve fare il suo cammino di fede: ascoltare la parola di Gesù,
vivere in comunione con lui, coinvolgerlo nelle relazioni della vita per
viverle insieme nell’amore.
Il
tempo del fidanzamento ci è dato per imparare l’amore che sostiene tutta la
vita.
Ogni
persona ha la sua capacità e la sua riserva di amore; ognuno è chiamato ad
accogliere lo Spirito, l’amore divino che viene donato nella vita ecclesiale,
l’amore forte e generoso che niente può travolgere e che può accompagnare
sposa e sposo nelle nozze. Le persone che ci stanno accanto cii indicano il
cammino, ci possono essere di esempio e di aiuto ma solo l’amore divino
diventa la mia forza che garantisce la riuscita.
4
Vigilate, perché non sapete né il giorno né l’ora. L’anno
liturgico che volge al termine e l’Avvento che si avvicina ci invitano alla
vigilanza. La vita cristiana va vissuta nell’attesa dell’incontro con
Cristo. Il rito ambrosiano prevede sei settimane di avvento per sviluppare
meglio l’attesa. L’undici settembre l’America e l’occidente si sono
svegliati di fronte ad un’iniziativa imprevista del mondo mussulmano, hanno
reagito spinti dalla paura e hanno deciso la guerra ed alimentato i mali
dell’umanità. La vigilanza del cristiano non si alimenta nella paura ma nella
speranza. Dio crea cose nuove insieme con l’uomo che confida in lui. Sono
visibili nella fede e godibili nella grazia.
La
vigilanza cristiana è attesa del Signore che rende possibile un futuro nuovo
per l’umanità, nella mezzanotte del tempo, quando Dio vince le tenebre e crea
il nuovo.
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ORDINARIO
33 A
2005
Abbiamo
un’altra parabola sulla Chiesa che attende di accogliere il Signore che viene.
Gesù
è partito per un viaggio, è salito al cielo, e prima ha lasciato alla Chiesa i
suoi beni: la parola di Dio, i sacramenti, lo Spirito che unifica nella Chiesa
l’umanità dispersa.
Gesù
ci ha affidato la missione di valorizzare i suoi beni. Abbiamo due possibilità.
-
attesa fiduciosa. Porta a investire i beni che Gesù ci ha lasciato per
salvarci e salvare
-
attesa paurosa: Ho udito il tuo passo nel giardino, ho avuto paura, e mi
sono nascosto.
Alcuni
cristiani hanno paura - di essere evangelizzati: meglio l’ignoranza;
non obbliga.
-
di essere santificati: meglio l’umano che si vede al divino che si
crede.
-
di fare comunità: meglio la famiglia, il gruppo di volontariato, dello
sport e degli amici.
La
paura porta a nascondere i doni per non rischiare di perderli ma comporta il
tradimento delle attese di Gesù, che ci ha lasciato i suoi beni per la salvezza
degli uomini.
Quando
Gesù era vincente Pietro era sempre in primo piano. Quando diventa perdente,
nella passione, Pietro si rifugia nel dire: io non sono dei suoi, io non lo
conosco.
Quando
la religione era vincente nell’economia, nella politica, nella società e
nella parrocchia, tutti si dicevano cristiani ed i furbi occupavano i primi
posti. Coraggiosi e perseguitati erano i non praticanti. Oggi Cristo è perdente
e in minoranza, come al tempo dei martiri, e non garantisce privilegi umani ai
discepoli. Molti non accettano che sia così e si comportano come prima. Nasce
la religione civile: sono battezzato, non credo ma difendo i diritti
della Chiesa, che fanno parte delle nostre tradizioni e della nostra cultura.
Il
natale, la befana, le feste dei santi perché non celebrarle? Il crocifisso,
perché toglierlo?
Credi
quello che vuoi e vivi come vuoi ma conserva la religione perché rappresenta
qualcosa di civilmente importante. Ma questa non è la religione di Gesù, non
valorizza i
beni che egli ci ha affidato. Cosa fare quando scopriamo di aver
tradito i beni di Gesù?
Il
vangelo parla di due atteggiamenti: il pianto di Pietro segna la sua
conversione, che lo riporta a valorizzare i beni di Gesù. La disperazione di
Giuda segna il fallimento della falsa speranza che Gesù si sarebbe salvato, che
ci salva qualunque cosa facciamo.
Ma
il Risorto sta lontano molto tempo e non ci difende anche se siamo nella sua
verità, ci lascia nel dubbio, perché maturiamo la fede, e nelle persecuzione,
perché maturiamo scelte convinte e convincenti. Ci vuole corresponsabili e
compartecipi al lavoro e ai frutti: prendi parte alla sequela e alla gioia
del tuo padrone. Questo è amore autentico.
Tradire
i doni di Gesù invece è tradire il Risorto. Applichiamolo a due eventi
importanti.
Oggi
diamo il mandato ai catechisti. E’ un evento che mette in luce le cose
seguenti:
-
i catechisti sono mandati da Dio attraverso la comunità cristiana, svolgono la
missione della Chiesa, godono della luce e della grazia dello Spirito santo.
-
i genitori sono i primi catechisti dei figli, in virtù dell’iniziazione e del
matrimonio.
I
figli crescendo completano la formazione con i loro compagni, nella famiglia di
Gesù.
-
il catechismo va unito agli altri percorsi della vita cristiana, in particolare
l’eucaristia e la comunione ecclesiale, da ricercare nei modi e negli spazi
che la comunità propone.
-
la parrocchia torna ad essere il
luogo privilegiato della pastorale.
Significa
che i cristiani non sono pendolari ma hanno una parrocchia sola di riferimento.
-
la preghiera della comunità accompagna l’opera educativa di tutti i fedeli.
Se
le cose non funzionano tutti devono domandarsi: ho pregato abbastanza per
comunità?
L’elezione
del Consiglio pastorale. Nella catechesi e nei gruppi stiamo meditando le
parole chiave del mistero della Chiesa: comunione, corresponsabilità,
crescita, missione.
Chi
non partecipa e non si informa non ha scuse davanti al Signore. - Scheda
di adesione.
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GESU’
CRISTO RE DELL’UNIVERSO A
2005
Oggi,
ultima domenica dell’anno liturgico, celebriamo la solennità di Cristo re.
Richiama
l’attenzione sul legame fra l’inizio del regno glorioso di Dio e la nostra
vita.
Gesù
ha annunciato il regno di Dio, lo ha seminato, fatto crescere e portato a
fruttificare. Il regno è ora, dopo venti secoli di storia,
un albero grande e rigoglioso.
Non
è visibile ai nostri occhi ma, come tutte le cose di Dio, lo misuriamo nella
fede, nella grazia, nella gioia che infonde nei cuori e nel bene che porta nel
mondo. La parola che abbiamo proclamata ci incoraggia a scommettere la nostra
vita sulla sua riuscita.
Gesù
è re dell’universo, anche della realtà materiale, civile e storica. Ma non
possiamo proclamarlo re a modo umano né rivendicare un regno cristiano qui,
perché Gesù ha detto che il suo regno non è di questo mondo. La realtà
terrena non è regno di Dio; lo può
diventare solo venendo trasformata. Ne consegue che la Chiesa non ha il compito
di governare il mondo ma di annunciarne la trasformazione. I politici presumono
di rispettare la religione ma quando i piccoli e i poveri fanno le spese della
politica significa che chi governa è lontano dal vangelo. La Chiesa non può
ridursi ad amministrare la carità dei ricchi ma deve proclamare e favorire i
diritti di tutti. Sono proprio gli emarginati e gli sfruttati dalla economia,
dalla politica, e talora dalla Chiesa stessa, gli eletti del Regno.
Occorre
dunque praticare le opere di misericordia ricordate da Gesù nel vangelo di
oggi.
Fame,
sete, immigrazione, nudità, malattia e carcere sono disagi veri di tante
persone.
Ma
ce ne sono altri ugualmente gravi. La mancanza di un’educazione religiosa, di
una esperienza di Dio autentica o di alcuni valori umani fondamentali, quali il
diritto alla vita di chi è nato, alla fedeltà di chi è tradito, al buon nome
di chi è giudicato in modo ingiusto, e, per chi è in crescita, il diritto ad
avere una buona educazione e compagnia.
Gesù
insegna che egli è presente in tutte le persone che portano dei bisogni, perché
i suoi discepoli si facciano servi
dei fratelli che sono nel bisogno. L’attenzione al prossimo è il requisito
indispensabile per entrare nel regno. Gesù distingue i buoni e i cattivi in due
categorie. Elenca le opere buone dei buoni; non elenca opere cattive dei cattivi
ma le loro omissioni, le opere che non hanno fatto. La condanna non verte sul
male fatto ma sul bene omesso, sul servizio che abbiamo negato. Il regno di Dio
non abita un territorio ma le relazioni di amore. Dove si ama come Dio è regno
di Dio. Gesù è il regno di Dio; egli è il pastore indicato da Ezechiele, che
cerca la pecora perduta, fascia quella ferita e cura quella malata. Gesù è il
re pastore, il diacono che dà la sua vita per la salvezza di molti.
Per
questo può giudicare gli uomini sull’amore. Gesù ci chiama ad educarci a
vivere oggi la vita gloriosa di domani, la vita dell’amore che si compie nel
servizio.
Siamo
chiamati a verificare la nostra coerenza. Venire in chiesa a pregare e a fare la
comunione non è coerente con il trascurare il bisogno degli altri, anche quello
spirituale, e con il rifiutare la propria disponibilità al Signore per fare la
pastorale della comunità.
Una
parabola racconta che gli invitati alla cena hanno trovato le scuse per non
andare. Chi trascura Dio per i propri affari, dopo essere andato a cena, è più
incoerente ancora. Oggi è la giornata per il seminario. Basta pregare o fare
un’offerta più generosa?
Occorre
anche apprezzare le cose a cui i sacerdoti dedicano la loro vita e occuparci con
loro delle cose del padre nostro dei cieli. Oggi la comunità ricorda la
generosità di Dio e lo ringrazia. Il modo migliore di ringraziare è
valorizzare i doni di Dio e farli fruttificare.
Oggi
abbiamo messo in evidenza l’immagine di Maria. Solo per onorarla e invocarla?
Certamente
anche per questo ma Maria esiste per essere madre spirituale di tutti e si
riconosce in particolare in coloro che dedicano se stessi alla causa di Gesù, a
cui lei ha dedicato tutta la sua vita.
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