Omelie del tempo ordinario
1
a cura di
don Carlo Salvador
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SAN
TIZIANO, PATRONO DELLA DIOCESI
2005
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Tiziano
fu vescovo nell’antica Opitergium romana, ora Oderzo. La diocesi
era da oltre un secolo suffraganea di Aquileia, la Chiesa madre
delle comunità cristiane venete.
Era
il tempo dei Longobardi, che avevano spezzato l’unità geografica
del territorio e incrinato la comunione della Chiese venete con la
Chiesa di Roma. Secondo la tradizione Tiziano morì nel 632 e la sua
urna fu trascinata da Oderzo a Ceneda, che era sede del ducato
longobardo e divenne anche sede della diocesi. S. Tiziano fu fatto
patrono della diocesi di Ceneda, che ora si chiama Vittorio Veneto,
la nostra diocesi.
La
liturgia della parola è tratta dal comune dei pastori. Sono brani
che conosciamo bene.
Isaia
proclama belli i piedi del messaggero che cammina sui monti e che
porta questi lieti annunci: la pace, il bene, la salvezza, il regno
di Dio. Il pastore porta messaggi belli.
La
pastorale manifesta le cose divine, distribuisce i beni più grandi,
quelli che sono desiderati, magari inconsciamente, da tutti gli
uomini. Come pastore
provo per primo la gioia di conoscere e gustare le cose di Dio che
annuncio e celebro e vedo la gioia dei catechisti, degli animatori
dei gruppi, di chi ascolta la parola e celebra le feste e i
sacramenti. Allora penso alla gioia grande dei discepoli che
ritornavano dalla missione, a cui Gesù li aveva mandati.
Partecipare alla pastorale è un dono grande del Signore, più
grande di tante attività che attirano la gente e riempiono il suo
tempo libero.
I
cristiani che si tirano indietro per rispetto umano svalutano le
cose di Dio e si privano della grande gioia che solo le cose
autentiche di Dio possono dare.
Paolo
ci invita a riscoprire la varietà dei carismi che Dio distribuisce.
La Chiesa vive della comunione dei beni spirituali. Pensiamo al
matrimonio e alla famiglia, piccolo nucleo ma dono per tutti.
Pensiamo all’ascolto della Parola. La lettera agli ebrei dice che
i credenti possono rimanere uniti, grazie alla fede, con coloro che
hanno ascoltato.
La
parola infatti genera sia la fede dei singoli sia il cammino
ecclesiale. Pensiamo alle piccole passioni che sostengono
l’impegno pastorale: la passione per il canto e la liturgia, per i
fiori e per l’arte, per la pulizia, per l’animazione dei
piccoli, per l’insegnamento del catechismo, per i malati, per i
problemi pastorali ed anche economici e per la missione. Luca
ci presenta l’arte della pastorale. Che cosa hanno in comune il
mestiere del pescatore e la missione di pescare gli uomini? Che
nessuno può contare nel risultato. Pietro un pescatore esperto, nel
tempo propizio alla pesca, fatica tutta la notte e non prende nulla.
Se i pesci non ci sono neanche i bravi pescatori li prendono. Tanti
pescatori di uomini non vedono il frutto del loro impegno e delle
loro fatiche, anzi constatano che i valori su cui si fondava la
cultura, la morale e la religione vengono spazzati via, come ha
fatto l’onda dal maremoto che nessuno aveva previsto e potuto
fermare.
E
allora è facile lo scoraggiamento, la ricerca delle responsabilità
e l’abbandono dell’impegno. Luca ci ricorda che nella pastorale
in realtà opera la potenza della Parola. Gesù dice a Simone: Prendi
il largo e calate le reti per la pesca. Tutti obbediscono alla
parola di Gesù e prendono una quantità enorme di pesci. Gesù
prefigura per Pietro il compito di prendere il largo, cioè di
decidere di pescare e dove, e a tutti l’impegno di lavorare con
luiì. Il cammino pastorale suppone il vescovo, che guida la Diocesi, e il parroco la parrocchia,
e il lavoro concorde di tutti secondo la direzione che è stata
presa.
La
festa di S. Tiziano ci rafforzi nella gioia di essere Chiesa attorno
al vescovo ed al parroco e di camminare
insieme in questa missione divina di salvare gli uomini
d’oggi.
Insieme
al vescovo, secondo le indicazioni della parola di Gesù, con la
forza dello Spirito santo che egli ci ha dato, arriviamo dove da
soli non possiamo neppure desiderare..
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ORDINARIO
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2005
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Matteo
nella pagina che abbiamo letto cita Is 8 che abbiamo ascoltato come
prima lettura.
Il
termine ebraico galil significa territorio ed è
all’origine del nome Galilea, la regione settentrionale della
Palestina, territorio di frontiera frequentato dai popoli di
confine.
Il
cammino apostolico di Gesù inizia da questo territorio in cui ebrei
e stranieri convivevano ed erano, come aveva detto Isaia, popolo
che camminava nelle tenebre, segno di tutta l’umanità.
L’apostolato di Gesù è il tempo in cui la luce splende fra le
tenebre. Questo inizio della pastorale ripropone il duello luce e
tenebre, tema del Natale. Al natale nella carne si aggiunge il
natale nella pastorale; l’incarnazione si snoda nell’annuncio
del vangelo. Il cristiano non può celebrare il natale nella carne
come solennità e non partecipare al natale nella pastorale.
Anche
questo è un evento di gioia, perché il vangelo di Gesù è luce ai
passi del credente.
Mt
descrive l’annuncio di Gesù con le parole usate dal Battista: Il
regno dei cieli è vicino. L’espressione regno dei cieli
significa non un luogo ma una situazione esistenziale che è secondo
la volontà del Signore. Manifesta l’azione di Dio che regna nella
giustizia e nella pace. Il predicato è vicino indica che
l’evento si è fatto epifania e continua a farsi vicino;
ήγγικεν è un perfetto e si
riferisce a una cosa avvenuta nel passato che ha effetto ancora nel
presente. Il regno di Dio è nato in Dio ed ora Dio lo pone a
portata nostra, perché avvenga per noi. Il regno di Dio ci è dato
come inizio e nuova nascita. Questa idea è contenuta nel battesimo,
che è nascita dall’altro, nascita da Dio.
Al
natale di Gesù nella carne corrisponde il nostro natale
nell’azione di Gesù pastore, nella nostra pastorale.
Nella
seconda parte del brano viene narrata la chiamata dei primi
discepoli. La vocazione avviene non alla fine ma all’inizio della
pastorale di Gesù. Occorre che il chiamato stia con Gesù nel tempo
della pastorale per farne esperienza ed essere mandato in missione.
La
chiamata suscita la risposta, che non è un’iniziativa o una
scelta del chiamato ma un atto di obbedienza a chi chiama. Anche
l’innamorarsi umano non è una scelta, altrimenti, funzionerebbe
sempre a nostro piacimento, ma è obbedienza alla chiamata di un
altro quando essa suscita l’adesione del cuore. Effetto
dell’innamoramento è la disponibilità a lasciare tutto subito e
in particolare a lasciare il padre, cioè la famiglia in cui si è
nati e la condizione in cui si vive, e a formarsi un’altra vita.
Di fronte a questa novità la prima famiglia diventa vecchia, un
cosa da lasciare, perché la nuova è migliore.
E’
interessante notare che nella chiamata di Gesù ritroviamo la stessa
dinamica dell’innamoramento. Davvero non è possibile dire quale
sia più forte o “naturale”; notiamo invece che producono lo
stesso seguito: una luce illumina, attrae e crea il nuovo. Si tratta
allora di un colpo di fulmine o di un cambiamento di pensare e
vivere a 360 gradi? Leggendo il vangelo scopriamo che sarà un
cammino lento. La risposta sarà ultimata e avrà il suo senso pieno
solo nella vita donata per il regno; gli apostoli seguiranno Gesù
nella missione, nella sua gioia e nel martirio. Solo dopo che la
loro risposta sarà compiuta avverrà il compimento ad opera di
colui che li ha chiamati.
Anche
questo trova il suo parallelo nella vocazione al matrimonio; alla
chiamata e alla celebrazione seguirà il cammino lento
nell’esperienza, la maturazione nelle esperienze gioiose e
dolorose, nella profondità della comunione e dei conflitti
familiari e il suo compimento vero avverrà quando l’esperienza si
sarà compiuta e la vita sarà consumata.
Anche nella dinamica umana il compimento può
essere donato solo dal Signore, quando il nostro sì sarà compiuto
perché la famiglia umana può solo sperare di vivere per sempre
nella famiglia del Signore. Celebriamo questa eucaristia, come
l’inizio e l’oggi della missione: a noi è chiesto, come agli
apostoli, di mettere al centro delle nostre aspirazioni non i pesci
o le cose o il padre terreno ma il Signore che chiama e donerà il
compimento.
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ORDINARIO
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Le
beatitudini sono riportate, in contesti diversi, da Mt 5 e da Lc 6.
Sono molto note, uno degli insegnamenti fondamentali di Gesù. Hanno
ispirato la vita di tante persone, cristiane e non. Gandhi, ad
esempio, le teneva esposte all’ingresso della sua casa.
Oggi
sembrano ai margini, anche nella vita della Chiesa. Credo che la
nostra cultura sia un ostacolo a capirne il senso e la portata.
Quindi occorre un impegno di comprensione.
Le
persone dette beate da Gesù sono tali non per la condizione in cui
vivono, ad es. perché sono poveri o perseguitati, ma perché Dio è
a loro favore. Essendo persone amate da Dio, sono già beate, anche
se ora sono in condizioni di disagio. Alcuni esempi.
Beati
i poveri, perché di essi è il regno dei cieli. Poveri sono gli
uomini liberi dalle cose, dalle persone ed anche dalle schiavitù
spirituali, cioè da religiosità magiche o appiattite sull’umano
o invadenti; sono le persone che scelgono la parte buona della vita,
come Maria seduta ai piedi di Gesù ad ascoltarlo; sono gli uomini
impegnati nelle situazioni problematiche della vita ma che non si
lasciano possedere da esse e sono capaci di contemplazione, di
purezza, di misericordia, di mitezza e di pace. Di che cosa sono
beati? Del fatto che il regno di Dio è in loro. Essi attendono
tutto da Dio e sono in cammino, in cerca di una pienezza più grande
di tutte le cose umane. S. Francesco e Gandhi sono testimoni di una
povertà che non è tanto mancanza di cose ma crescita di vita verso
la pienezza. Affascinano non per quello che non hanno ma per quello
che vivono. D’altra parte i ricchi, che confidano nei beni e in ciò
che li garantisce, non hanno spazi per Dio. Gesù dice chiaramente
che Dio e il denaro sono alternativi e invita a scegliere.
Le
persone oggi sono troppo occupate dal desiderio dei beni per
apprezzare la libertà interiore. La nostra cultura e il modo di
progettare la vita non è attento ai valori spirituali. Beati gli
affamati e gli assetati di giustizia, perché essi saranno saziati e
i miti perché erediteranno la terra. Sono gli uomini forti e
nello stesso tempo non violenti.
Chi
perdona è più forte di chi si vendica. Gesù infatti perdona i
suoi crocefissori e non si vendica, anche se poteva disporre di
dodici legioni di angeli, cioè del popolo degli angeli.
La
violenza nel contesto del regno di Dio che è amore e dono non ha
legittimazione.
I
forti sono persone miti, che sanno attendere con fermezza e con
pazienza; si impegnano a fondo per la giustizia ma non si piegano
alla violenza, resistono alle ingiustizie e cercano sempre la verità.
Una persona che ha paura di morire e non ha forza di resistenza non
può essere non violenta nelle situazioni violente. In esse la non
violenza è il culmine del coraggio. Giovedì scorso l’occidente
ha celebrato la memoria della shoah ad Auschwitz, nel 60° dalla
liberazione del campo di sterminio. La condanna per il nazismo si è
accompagnata alla condanna per il tradimento di chi sapeva ed ha
taciuto. L’Italia ha ricordato con vergogna le leggi razziali
emanate dal fascismo. Chi non le ha impedite è stato
corresponsabile. Impariamo che la terra e la storia non sono dei
violenti; essi le occupano per un po’ di tempo ma poi restano
bollati per sempre con la vergogna.
Questo
senso delle beatitudini si inserisce bene nel contesto della
rivelazione.
Sofonia
profetizza: Israele non avrà più vergogna sopra il monte santo di
Dio, perché Dio eliminerà tutti i superbi. Il resto d’Israele
diverrà un popolo umile e povero che confida nel Signore, un popolo
di beati che si trovano dalla parte di Dio. L’alternativa tra
superbi ed umili, tra poveri e ricchi, tra chi sceglie come ha
scelto Dio in Cristo e coloro che mirano al successo umano è
evidente. Pensiamo al magnificat o al pensiero di Paolo nella 2
lettura. Dio non chiama i sapienti, i potenti e i nobili che
vogliono restare tali.
Dio
sceglie ciò che è stolto e debole e disprezzato; ci ha dato in Gesù
un modello di sapienza, giustizia e santità. Gesù in tutte le
situazioni è stato povero, umile, forte e non violento. Era beato
perché il Signore era con lui.
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I
versetti di Matteo che abbiamo proclamati vengono subito dopo le
beatitudini.
Dicono,
come le beatitudini, chi è il discepolo di Gesù. Matteo usa
l’indicativo: Voi siete.
Non
scrive: voi dovete essere o potete essere. Il discepolo è tale non
per virtù propria ma perché Dio lo ha chiamato e lo ha
santificato; pensiamo ai sacramenti dell’iniziazione cristiana e
dell’ordine sacro. Ciò che Gesù dice in questi versetti riguarda
l’essere, quello che siamo per opera di Dio, prima che la morale,
quello che siamo chiamati a fare. Quando non ci è chiaro chi siamo,
quello che facciamo, anche se è generoso, può remare contro il
volere di Dio. La nostra diocesi ha tanti preti e laici che si sono
dati da fare ma ora si trova nella situazione pre-conciliare e, dopo
il Concilio, è trovarsi fuori posto. Matteo usa due immagini, che,
come le parabole, sono facili al primo ascolto ma, proprio perché
facili, possono distogliere dal cercare il senso profondo. Sono: il
sale e la luce.
Voi
siete il sale della terra. I discepoli hanno, rispetto alla
terra, una funzione analoga al sale rispetto al cibo. Il sale nella
cultura biblica ha avuto vari significati. Matteo qui si ferma al
sapore. Essere sale della terra significa rendere la terra
gradevole, saporita, piena di senso, bella da vivere. La terra non
è così da se stessa ma è il discepolo a renderla così.
Ne
deriva che i discepoli sono necessari, come è necessario Gesù
stesso, perché il creato divenga buono/bello. Gesù però tratta
l’immagine del sale con libertà. Parla di sale della terra. Ora
sappiamo tutti che il sale non dà sapore alla terra. Vuol dire che
i discepoli sono fatti da Dio come sale di una realtà che non si
amalgama facilmente con esso; occorre la potenza dello Spirito santo
perché il cristiano dia sapore al mondo. Gesù dice anche che il
sale può diventare insipido, mentre in natura un sale insipido non
è sale.
I
discepoli invece possono diventare insipidi pur rimanendo sale,
perché tali sono stati fatti da Dio. Essere sale ed essere gettati
via, perché non si dà sapore alla vita, è un’eventualità
tremenda eppure è affermata nelle Scritture.
Voi
siete la luce del mondo. Anche qui Gesù fa un rilievo. Una
lucerna si accende e si mette in alto perché la luce si espanda,
non per coprirla. Possiamo nascondere la luce noi quando manchiamo
di limpidezza o diveniamo opachi, così che la luce non traspare;
Possono farlo gli altri quando ci mettono nel posto sbagliato. Sono
scelte insensate ma nella Chiesa si fanno tante cose insensate
soprattutto nella valorizzazione delle persone. L’invidia, la
voglia di carriera e di onori, l’assicurarsi le pedine giuste per
le proprie mire alte possono prendere il posto dello zelo per Dio e
per la pastorale.
Dio
distribuisce come vuole tanti carismi e chi li riceve deve metterli
a servizio di tutti, accettando anche posti di responsabilità,
perché i carismi devono risplendere nella casa.
Isaia
parla della luce che sorge come l’aurora e che rimargina le ferite
aprendo i cuori alla speranza. Se camminiamo nella giustizia la
gloria del Signore ci segue; se gli chiediamo aiuto egli ci
risponderà: Eccomi. Sono espressioni molto belle. La giustizia
è la meta che abbiamo davanti; il Signore ci segue nella sua
gloria. Eccomi! è il verbo della risposta alla chiamata ed
è il Signore a dirlo a noi.
Isaia
nella prima lettura enumera le opere di carità che fanno brillare
la luce fra le tenebre. Una le indica tutte: Non distogliere gli
occhi dalla tua gente. La carità non è un insieme di opere, ma
tenere gli occhi e il cuore sulla gente per rispondere non ai loro
capricci ma ai loro bisogni. E’una sensibilità che nasce dalla
grazia dello Spirito santo, data da un sacramento: il diaconato.
Essere servi significa amare prima ancora che fare.
Che
il Signore abbia voluto consacrare con un sacramento la carità è
indicativo.
La
Scritture ha insegnato da sempre che la misericordia viene prima del
sacrificio.
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