Parrocchia di Campolongo in Conegliano

 

 

Io sono un peccatore

 al quale il Signore ha guardato

 

a cura di don Carlo Salvador

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Io sono un peccatore                                                                                    a cura di don Carlo    [ 1 ]  

al quale il Signore ha guardato           

 Confessare

 

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Jorge Mario Bergoglio, quando gli hanno chiesto se accettava l’elezione a papa votata dai suoi colleghi cardinali, si sentiva “un peccatore al quale il Signore ha guardato”. E prese il nome impegnativo di “Francesco”.

Dio stava guardando il nuovo papa con amore misericordioso e creativo.

La misericordia partecipava vita a chi non ne aveva abbastanza di suo e la creatività rendeva l’elezione bella a vedere e a gustare: l’amore di cui abbiamo bisogno è quello che sposa misericordia e creatività.

Per Matteo, il lavoratore liberato dalla cupidigia del denaro, e per il ricco che osservava la legge fin dalla sua giovinezza ed è rimasto impigliato nei lacci dei molti beni, e per i chiamati, dai patriarchi fino all’ultimo profeta tra noi, amore è passare dalla schiavitù alla libertà e dal grigiore alla bellezza.

Papa Francesco fin dall’inizio confessa la fragilità sua e l’amore di Dio: sono un peccatore ma il Signore ha guardato a me. Nei tempi andati a noi bambini mettevano gli occhiali da sole, e vedevamo il mondo dai peccati e confessavamo il loro numero e la loro specie e l’assoluzione era una sentenza liberatoria e solo quello. Chissà perché  Dio ti vede che sbagli e non vede che fatichi a crescere. Nei tempi di Francesco invece confessiamo l’amore e quello che risplende al suo tepore e si colora alla sua luce: anche le fragilità vanno bene alla misericordia creativa di Dio.

Nel mio animo risuonava fin dall’aurora il sentire che più tardi ho udito cantare dal profeta: sono creta in mano a un vasaio che mi modella come ai suoi occhi pare giusto e, quando il vaso che sta modellando si guasta, riprende e ne fa uno nuovo. E confesso che noi tutti siamo creati da Dio, giorno dopo giorno, e passiamo dalla materia informe e vuota alla bellezza.

Dopo i trenta scatti sui cinquant’anni dalla mia ordinazione, ora, seguendo Francesco, provo a confessare l’amore, rivivendo alcuni eventi della mia avventura di presbitero. Per chi mi legge e prima ancora per me.

La sapienza trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Come canta il salmista: non vado cercando cose grandi e meraviglie più alte di me ma resto quieto e sereno, come un bimbo svezzato in braccio a sua madre.

La Chiesa è mia madre e io godo in braccio a lei ma come bimbo svezzato.

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Io sono un peccatore                                                                                    a cura di don Carlo    [ 2 ]  

al quale il Signore ha guardato           

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 in una comunità in festa

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L’anno giubilare è iniziato il 29 giugno 2012 nell’antica parrocchiale di S. Pietro, che mi richiama la cresima avuta da bambino e la mia preghiera da prete novello quando, solo nella mia talare, godevo la compagnia di tante anime venute quassù nei secoli dalle valli dintorno a proclamare la fede affrescata sulle pareti e a celebrare le feste. Ero ospite di don Luigi cui ho dato il mio primo olio santo, quando ancora non sapevo come fare, e che mi ha lasciato in eredità la comunità per due mesi. Ricordo le omelie, i nomi e i volti e i sentieri dei primi passi da prete. Dormivo sul letto che era di papa Roncalli, quando da patriarca si concedeva quassù qualche giorno di riposo.

Era la festa del santo patrono e l’anno dopo, il sabato sera, ho compiuto i cinquant’anni di ordinazione a Campolongo con la comunità che frequento da quasi trent’anni e nella chiesa che abbiamo rinnovato insieme con il Concilio alla mano. Ho celebrato l’eucaristia con lo zelo della prima volta e ho ascoltato le letture che sono proclamate ogni anno in questo giorno.

Mi impressiona sempre Pietro trattenuto in prigione in attesa del martirio che gratificava i giudei, e la comunità che pregava con slancio sentendosi orfana di lui. Le solitudini nate dalla persecuzione trovano comunione e fecondità nella preghiera. Mi interessa anche Paolo e la sua lotta con altri in gara con lui, quasi una corsa a chi era fedele. Sentivo che la mia vita era salvata dalla preghiera della comunità e motivata dalle sfide pastorali.

Anche gli scandali educano ad amare una missione che si rivela più grande di noi: senza la preghiera e la comunità non saresti nessuno e senza la tua testimonianza la comunità sarebbe più povera, quando le cose diverse scontrandosi generano fecondità. Ho provato la gioia di condividere la preghiera che confortava il mio cammino di peccatore amato da Dio: non restino confusi a causa mia quelli che cercano te, o Signore. E ho sentita bella anche la chiesa piena di compagni di viaggio della prima e dell’ultima ora, le 260 persone con cui abbiamo condiviso la cena, un dolce lungo chilogrammi e i calici colmi di allegria. Molto più bello dei discorsi ad personam e dei regali con cui gli amici segnalano che ci sono. Dio dona l’inizio e il compimento e basta alla gioia della comunità riconoscente.

 

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Io sono un peccatore                                                                                    a cura di don Carlo    [ 3 ]  

al quale il Signore ha guardato           

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 Volti e luoghi della fede

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Verso fine giugno 2013 una telefonata mi avvertiva che organizzavano una puntatina veloce a Roma alla tomba di papa Luciani che cinquant’anni prima ci aveva fatti preti. In Vaticano poi potevano nascere altre cose: prendere o lasciare. La proposta turbava un poco i miei programmi ma qualcosa urgeva verso il sì: la mia fede era legata anche a dei volti e a dei luoghi. Dopo aver celebrato l’anniversario con le nostre comunità, all’alba del lunedì partimmo con la freccia del Sud un po’ alla rinfusa come la roba nel nostro trolley. Era un pellegrinaggio alle sorgenti con la voglia di specchiarmi nei luoghi della fede. Ne avevo fatto esperienza, sempre in un gruppo di preti,  nel pellegrinaggio nella Terra santa e in quello in Turchia, sulle orme delle prime comunità e di Paolo: quei giorni erano stati per me come esercizi spirituali e quei luoghi, vissuti dai primi discepoli, come omelie. Ero in gruppo, come nei giorni del Seminario e dell’ordinazione, e leggevo nel volto dei miei compagni la saggezza delle persone mature. Abbiamo concelebrato sulla tomba di Pietro nella basilica a lui dedicata e abbiamo contemplato la sua grandezza riflessa nell’umiltà del pescatore e del martire, consapevoli che anche la nostra fede è maturata nei momenti forti del fervore e della fragilità, delle sconfitte e della risurrezioni.

Abbiamo rinnovato la sua professione di fede: “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna”. La sua comunità perseguitata, venti secoli or sono, lo aveva consegnato alla terra in questo luogo per noi.

Nell’omelia ognuno ha ricordato un tratto significativo della sua vita da prete. Io ho confessato la mia gratitudine per il Signore che mi aveva chiamato e la mia fragilità nel compiere la missione. Subito dopo ci siamo soffermati alla tomba del vescovo Albino, divenuto papa per sorridere 33 brevi giorni: siamo stati ordinati preti da un vescovo cui il Signore avrebbe affidato la missione di Pietro. Il pomeriggio siamo andati nella basilica di S. Paolo fuori le mura a rinnovare la nostra professione di fede sulla tomba dell’apostolo da poco scoperta. Pietro e Paolo: due testimoni della fede e due volti della missione a cui ogni prete è inviato: differenze personali e pastorali condotte ad unità per divenire la ricchezza di tutta la Chiesa.

 

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Io sono un peccatore                                                                                                                  a cura di don Carlo    [ 4 ]

al quale il Signore ha guardato                                

 

Vedere Pietro.

 

Paolo racconta di essere salito due volte a Gerusalemme per esporre il vangelo che annunciava tra le genti: voleva vedere Pietro, per evitare di correre o aver corso invano. Ero sceso a Roma la prima volta come pellegrino in cerca di emozioni e la seconda, con molti preti venuti da tutta Europa, per ascoltare da Paolo VI il vangelo da annunciare al lavoro. Questa volta non avevo attese particolari: ero venuto per pregare su tre tombe  a me care. Siamo entrati a S. Marta nella festa di San Tommaso, quello dei Dodici che aveva intrapreso un percorso solitario alla fede. Papa Francesco ha detto che era un testardo, attaccato alla propria convinzione e deciso a non cedere nulla agli altri apostoli. Ma il Signore lo ha portato, primo fra tutti, a riconoscere in Gesù il suo Dio. Era dunque importante mettere il proprio dito nella piaga dei chiodi e la propria mano nel costato di Gesù. Ero stato educato, come i miei confratelli, a cercare Dio nei percorsi dell’ascesi: la meditazione e le preghiere, lo spirito di sacrificio e l’obbedienza. Ora il papa stava dicendomi  che sono strade senza sbocco e mi esortava ad entrare nelle piaghe di Gesù praticando le opere di misericordia verso i fratelli emarginati. Dovevo frequentare queste piaghe toccandole, curandole e baciandole: mani consumate nel lavoro, piedi feriti nel cammino, cuore squarciato dall’amore. Per farlo non occorre un corso di aggiornamento ma è sufficiente uscire per la strada. Quell’omelia mi ha avvolto di intima gioia. Il mio lavoro pastorale è stato scendere per strada, fuori dei recinti creati e difesi dalle istituzioni, ai cancelli e dentro le fabbriche e nelle piazze accanto a persone avvolte da una tuta che soffocava la loro solidarietà e private anche del diritto delle pagine del vangelo che mancavano nella bibbia dei preti. Era dura essere segno di contraddizione quando anche gli amici che mi vogliono bene da sempre seguivano perplessi il mio diario di bordo. Dopo l’eucaristia papa Francesco ed io ci siamo presi le mani: le nostre parole erano schive ma lo sguardo accarezzava l’anima. Era il segno di comunione che mi mancava.

E così papa Francesco mi ha confermato che non sono corso e non corro invano: sono come Tommaso un peccatore al quale il Signore ha guardato.

 

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lo sono un peccatore                                                                          a cura di don Carlo [ 5 ]

al quale il Signore ha guardato                                        

                                                                                       

Riverenza e obbedienza.

 

      

A conclusione del rito che mi consacrava presbitero il vescovo mi ha chiesto: Prometti a me e ai miei successori riverenza e obbedienza?  Era una domanda ad alta tensione sia per il vescovo sia per me: implicava più di quanto stavamo per consegnare alle nostre parole. Il vescovo me le chiedeva per i sei vescovi con cui avrei condiviso il mio ministero, senza conoscere l'impatto che avrebbero avuto in me e nella Chiesa. E io, prete novello, assomigliavo a due innamorati che decidono di legarsi per tutta la vita: sentivo la gioia di coronare il sogno a lungo accarezzato, la trepidazione di fronte alle incognite future e l'amore che non valuta i rischi. E mi sono affidato totalmente per non combinare un affare senza amore. Ora, dopo un lungo cammino, incontro persone anziane serene e grate ed altre segnate dall'amarezza. Di fronte alle difficoltà un mio compagno di ordinazione è emigrato in altra diocesi e un altro ha lasciato il ministero. Quando avevo l'entusiasmo non c'era lo spazio e ora mi vengono meno le energie. Riverenza e obbedienza si promettono ma poi si imparano nell'alternarsi di successi e sconfitte. Mi sento fortunato perché le ho promesse al Signore, che è sempre fedele e si prende cura di me e delle mie ferite. L'obbedienza riguarda i compiti che ci vengono affidati ed è più facile, perché si può lavorare ovunque se si ha l'amore giusto con il Signore. La riverenza per le persone a cui manca l'autorevolezza necessaria è più complicata. La riconoscevo alla Chiesa che mi ordinava prete ma è stata in tentazione con quella da cui mi dividevano, per lunghi giorni, spiritualità e scelte pastorali. Anche oggi sono tentato fra l'unità ecclesiale e la fedeltà al Signore, che mi ha insegnato cose di cui sono responsabile. La comunione mi è necessaria come l'acqua che mi disseta ma nell'acqua posso anche annegare. Avevo timore a abbandonarmi al Concilio prima di averlo verificato e non potevo sperimentarlo senza accoglierlo nel cuore. Quando riverenza e obbedienza mi sfidano trovo pace rimettendomi alla comunità: "Se il tuo fratello non ascolta dillo alla comunità", insegna Gesù. La comunità infatti è abitata dal Signore e lo posso conoscere nella fedeltà, dopo che mi ha condotto nel deserto e ha parlato al mio cuore.

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Io sono un peccatore                                                                                                       a cura di don Carlo    [ 6 ]

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 Giocare davanti a Dio

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Papa Francesco si è congedato da noi ricordando il vescovo che ci aveva ordinato preti. Egli a volte diceva che il Signore ha fatto sei sacramenti e una trappola. Il papa sorrideva divertito sillabando trappola. A me ricorda un detto dei Proverbi: Io ero con lui come artefice: giocavo davanti a lui ogni istante. Il gioco di Dio è speciale: fa soffrire ma migliora la vita.

Il creato era un panorama che Dio ammirava ogni istante, ma egli prende la creatura allora più evoluta e soffia in essa il suo spirito, che la turba tutta ma la trasforma in uomo vivente. E Adamo gioca nel giardino da signore ma non gode appieno, perché manca di qualcuno con cui giocare alla pari.

Dio, che è Trinità, comprende la solitudine di Adamo, lo addormenta e poi lo disarticola: di uno ne fa due, diversi fra loro ma legati in una carne sola. Sono due a sua immagine e possono giocare come lui. Ma l’uomo e la donna cedono all’invidia per non essere del tutto come Dio, e una guerra senza fine attraversa lo spazio e il tempo. Nell’abbraccio non consolano appieno il loro cuore: erano caduti in una trappola? Per verificare, il Padre manda il Figlio nella carne e lo fa accompagnare dallo Spirito santo. Uomo e Dio, anche il Figlio si sente solo nel giardino: e tutto va bene finché rimane nascosto ma, appena si rivela, si scatena attorno a lui una sfida dall’esito incerto fino alla fine. Più tardi il Padre guarda il Figlio amato pendere dalla croce e ricorda il suo lamento nel giardino del dolore: Padre, ti prego, se è possibile, non farmi giocare come vuoi tu! Ora però gli confidava in fil di voce: Padre, affido il mio spirito alle tue mani che creano il nuovo.

E il terzo giorno Dio lo chiama dai morti ed egli sale in cielo, vestito di un’umanità gloriosa, a giocare con la Trinità. Il sacrificio che Dio gradisce non espia i peccati ma porta le creature a giocare davanti  a lui.

Nei miei giorni la gente lamenta che non so accontentare tutti e fare quello che fan tutti. E’ tanto comoda la vita da burocrate: perché erigere muri contro tradizioni innocenti che piacciono tanto agli uomini? Non comprendono che il Signore chiede di fidarsi di lui e di una festa che non si paga e non si consuma: di sacrificarsi per una novità che ora non si vede.

E io resto il peccatore innamorato di Dio con cui egli ama ancora giocare.

 

 

 

Io sono un peccatore                                                                                                                 a cura di don Carlo    [ 7 ]

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 La carta d’identità

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La rigiravo emozionato tra le dita. A destra la mia foto, la firma e la data e a sinistra i connotati: cappelli, occhi, altezza, professione e segni salienti.

Così allora ho fatto capolino nella società degli adulti. Ora, in attesa di congedarmi da tutti, guardo con nuovo incanto a quel vecchio ritratto.

La carta nel lato destro attesta l’identità cristiana maturata lungo i percorsi dell’iniziazione condivisi con il popolo di Dio. Nasciamo e cresciamo dentro la comunità come nel ventre materno: lì Dio accende la vita, la nutre di sé e la partorisce a un glorioso migrare che egli apre nel deserto e nel mare.

 In lei ci riconosciamo figli e fratelli e troviamo la madia per la nostra fame e il riparo sicuro nei nostri inverni. La dimensione sacerdotale del popolo di Dio ha la misura dell’altare, che è posto in alto e al centro: fiori, ceri e crocifisso posano sulla mensa per dargli bellezza e onore. A me piace velato da una sola tovaglia, che lascia trasparire la nuda pietra a forma di croce, richiamo a quella che ha avvolto Gesù e attende anche noi.

L’altare è visibilmente allineato con l’ambone, dove sillabiamo la parola del Signore, e con la cappella dell’iniziazione e la sua vasca battesimale, il cero e l’icona che assicura dell’alito dello Spirito. Il popolo sacerdotale nella sua dimensione pastorale esplora i sentieri possibili, senza presumere di sapere ciò che è bene per tutti, e crescendo insieme al regno dei cieli, dove riceviamo luce gli uni dagli altri. E’ un regno che cresce quando il piccolo diventa grande e il grande si fa piccolo, perché Dio regna nelle periferie, cerca gli emarginati, mangia con loro e guarisce le loro malattie.

Lungo i pascoli della vita il popolo scopre la sua dimensione profetica: illuminare il presente a partire da Dio, che rischiara ogni istante dell’universo. Non ci sono pulpiti alti né futuri da sperare nella nostra realtà presente tutta provvisoria. In essa occorre anche tacere, come profeti che non sono creduti e si guardano bene dal silenzio complice che copre le vergogne. Mi sento in famiglia entro un popolo di sacerdoti, re e profeti che incontrano e annunciano un Dio sempre nuovo, un altro cammino possibile e una Chiesa che dona vita immortale. Sono una pecora fragile in un piccolo gregge, più volte smarrita e ritrovata dal Pastore che mi ha guardata.

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Io sono un peccatore

al quale il Signore ha guardato                                                                a cura di don Carlo [ 8 ]

 

Identità di presbitero

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Il lato sinistro della carta d’identità evidenzia i connotati personali, quali il   colore, l’altezza e la professione: mi mostra membro del popolo di Dio con addosso la veste del prete. Cosa significa essere prete nella Chiesa di oggi?

Già l’AT aveva distinto la dignità sacerdotale, regale e profetica propria di tutto il popolo dai ministeri affidati a persone singole che Dio chiamava e consacrava: i sacerdoti, i re e i profeti. Anche allora si dava più importanza a questi ultimi che al popolo. Abitavano infatti il luogo della mediazione, perché stavano davanti a Dio con i peccati del popolo e davanti al popolo con le credenziali di Dio. Nella pienezza dei tempi Dio ha mandato il Figlio suo costituendolo sacerdote e insieme re e profeta: gli riconosceva ogni dignità e ogni mediazione. Risorto dai morti Gesù manda i Dodici, come egli era stato mandato dal Padre, costituendoli mediatori insieme con lui con l’unzione dello Spirito. Dio vede il suo popolo nel prete e il prete nel popolo.

Il presbitero è parte del popolo sacerdotale, regale e profetico ed è anche ministro che genera e custodisce il sacerdozio, la regalità e la profezia.

Egli infatti è scelto tra i cristiani per dedicarsi agli uomini e resta uomo come loro fino a portare il peccato di tutti; è anche chiamato vicino a Dio come Gesù, fino a divenire intimo a lui, pacificato nella sua volontà che salva, ma ha i piedi impastati della fragilità del fango da cui è stato tratto. Dio lo desidera simile in tutto agli uomini, eccetto il peccato, ma lo riconosce mediatore nonostante i peccati, i ritardi e le frenate del suo cammino.

Il suo ministero sacerdotale è misurato dai sacramenti della mediazione in cui rende possibile la nuova alleanza: egli la interpreta con una vita celibe dedicata prima di tutto al Regno di Dio e al ministero della riconciliazione.

Riveste i panni del re pastore che conduce il nuovo Israele ai pascoli possibili e lo riconduce nel recinto sicuro, senza presumere di possedere qualcosa di suo ma condividendo la ricerca della verità tutta intera.

Come profeta rende presente Dio nella parola che risuona nel deserto e disseta ogni terra riarsa e rende fecondi i semi che Dio getta nella vita.

Il colore, l’altezza e la professione mi presentano come sacerdote re e profeta che media. Ed io mi sento un peccatore a cui il Signore ha guardato.

 

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Io sono un peccatore                                                                                            a cura di don Carlo    [ 9 ]

al quale il Signore ha guardato                               

 Lo svuotamento

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La carta d’identità riserva uno spazio ai “segni particolari”. Viene annullato con dei trattini quasi a dire che è complicato o indiscreto portarli a vista se non sono straordinari e riconosciuti. La Chiesa espone il crocifisso come segno del figlio di Dio e fin dalle origini canta il Cristo che è Dio e svuota se stesso così da essere trovato uomo, e uomo marginale, e obbediente fino alla morte, e questa di croce. Il profeta diceva che era il suo destino di agnello sacrificale per i peccati di tutti noi. In realtà la croce è l’asticella che indica l’altezza raggiunta dal Figlio in cui Dio si compiace e quindi è il vero panegirico della vita. Il ministero ordinato inizia con l’elezione diaconale, ritenuta il gradino per accedere ai successivi che portano in alto. A me si è rivelato il primo in quanto fondamento di ogni grandezza. Il servizio misura l’amore e ciò che appare un fallimento agli occhi del mondo, e molte volte della Chiesa, è un’opportunità per Dio che crea dal nulla le cose.

Ci vuole poco a vedere i fallimenti decisi da coloro che non apprezzano il meglio di te. L’ho provato al termine del mio servizio nel mondo del lavoro e del cammino con i diaconi. Non manca qualche apprezzamento per addolcire la porzione che stai per bere, perché non pensano che tu sei già disposto ad andare dove non sai. Altri fallimenti si manifestano quando vedo che il Signore mi sta conducendo per sentieri diversi da quelli che avevo immaginato. Ed ora che gli anni da parroco stanno per compiersi si dirà quello che si sussurra da tempo: peccato che abbia voluto fare da solo, lontano dalla pastorale di tutti. E se invece coltivavo quello che il Signore mi insegnava ogni giorno? Ricordo un vecchio parroco venuto a trovarmi per scusarsi al posto dei confratelli, dispiaciuto perché i cocci non si potevano più ricomporre. Non mi importava sapere quale vaso si era rotto, perché entro il popolo di Dio i fallimenti di re, sacerdoti e profeti sono scandali necessari che svelano i pensieri dei cuori. Lo svuotamento non è la fine: ci pensa la memoria liturgica a far si che la croce attiri lo sguardo delle persone ferite e guarisca i loro cuori smarriti. Dio riserva una sorpresa a coloro che ama: erano costretti tra gli ultimi e sono liberi tra i primi, peccatori dal cuore ferito e testimoni solitari a cui Dio ha guardato.

 

 

 

Io sono un peccatore

al quale il Signore ha guardato                                             a cura di don Carlo [ 10 ]

 

 

Un patto con Dio

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Dopo il liceo classico iniziavo l’anno propedeutico alla teologia. Studiavo filosofia tomistica con il vescovo Luciani, appena arrivato da Belluno e in particolare cercavo di discernere come essere presbitero della Chiesa.

E venne una prova alla vocazione. La mamma aveva visto i figli partire ad uno ad uno: le due sorelle si erano sposate e abitavano lontano, un fratello lavorava a Genova, due erano emigrati in Canada ed io ero in Seminario.

Tempo duro per una donna, vedova ormai da vent’anni, che ci aveva tirati su in una sfida quotidiana alla povertà. La nostra terra non bastava a nutrirci e a vestirci e meno che meno a mettere su famiglia.

 La piccola proprietà era destinata ad essere divisa tra noi e un nugolo di cugini sparsi nel mondo. Il

borgo era senza corrente elettrica e senza strade praticabili e l’acqua bisognava rimediarla dalle piogge o da vene incerte e lontane. Non erano più i tempi in cui per sposarsi bastava rimediare una camera e un paion, per cui non era possibile una sistemazione neppure per uno di noi.

Come avrebbe potuto una mamma scoraggiare i figli che inventavano il loro futuro? La stanchezza e la solitudine intanto incidevano la sua salute con segni spesso allarmanti. Allora mi sono dato coraggio e ho detto a Dio: io, il più piccolo della nidiata, dovrei ritornare con lei. Tu però, se vuoi, puoi aiutarla a ritrovare serenità e salute e io posso continuare a seguirti. Da allora la mamma è stata bene; qualche problema sorgeva solo nei brevi tempi in cui eravamo insieme. E io ho imparato a prendere altre volte l’iniziativa con il Signore quando si presentavano problemi pastorali.

Nella mia vita i soldi erano sempre sottolivello e mi preoccupava che il prete chiedesse soldi alla gente, legando religione e denaro, e più ancora che dipendesse dai ricchi che non sanno dare niente per niente. Allora ho detto al Signore: io mi occupo di pastorale nelle sfide originate dal Concilio. Tu,

che sei padrone del mondo, non hai problemi a pensare al denaro, solo quello necessario alla missione. E così ho fatto le cose che credevo giusto fare senza dipendere da qualcuno.

Se sei leale con il Signore lo impegni ad esserlo con te e i momenti duri della vita ti forgiano e tu scopri con stupore e gratitudine di essere un peccatore al quale il Signore ha guardato.